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La casa di campagna della nonna era bellissima, cioè, non proprio la casa, che era un po’ vecchietta e aveva i muri scrostati, però la campagna sì. Mario ci passava quasi tutta l’estate a girare per i campi che la circondavano. Bisognava stare attenti ai contadini che non si arrabbiassero a trovarselo tra i piedi quando lavoravano. Ma se non gli davi fastidio delle volte ti regalavano anche delle cose. Come per esempio le manate di ciliegie, che Mario le teneva con il bordo della maglietta mentre le mangiava e già lo sapeva che poi la nonna avrebbe brontolato per le macchie rosse. Oppure certi rami segati che se li poteva portar via per farci una capanna tutta sua. A volte anche un sorso di vino, che gli veniva da ridere ai contadini a vederlo fare le smorfie per mandarlo giù. La nonna non aveva paura a lasciarlo andare da solo, tutti la conoscevano lì intorno e lei sapeva i nomi di tutti e anche dei loro figli e nipoti e perfino dei parenti morti. Grazie a tutti questi nomi nella testa della nonna Mario era libero di andare dove voleva e nessuno gli chiedeva niente. La nonna pretendeva solo che fosse a casa per pranzo e poi dopo cena diceva che era ora di andare a letto e non gli faceva mai vedere la tivù, ma a Mario andava bene lo stesso che tanto era così stanco che si addormentava subito. Del resto alla nonna interessava che lui non si facesse male e sembrava non avere il minimo dubbio che di Mario ci si poteva fidare. Mario dalla nonna si sentiva già grande anche se non lo era. Lo sapeva, di non essere ancora grande, per un fatto: non aveva mai visto un arcobaleno. La sua mamma glielo aveva spiegato che era perché vivevano in centro e nella città era difficile che un arcobaleno ci venisse. Però in campagna no, era facile e Mario ci contava, quell’anno doveva a tutti costi vedere l’arcobaleno, che i suoi compagni lo avevano preso in giro quando gliel’aveva detto. Per non parlare poi di come c’era stato male quando la mamma aveva raccontato che una volta con la macchina in autostrada era andata a finire dritta dritta dentro il punto esatto dove cominciava un gigantesco arcobaleno. E lui non c’era, non era nemmeno nato aveva detto lei.

Una mattina Mario era uscito dalla casa dopo aver mangiato almeno tre enormi fette di pane col burro anche se aveva detto che era già pieno dopo la prima e la nonna aveva insistito che doveva crescere e diventare bello grosso. Così con la pancia che scoppiava cominciò a camminare a casaccio, senza una meta che era scontento e aveva messo su il muso con la nonna. A lui piaceva essere leggero per fare i salti e correre veloce, che ce l’aveva un compagno bello grosso, ma era sempre l’ultimo ad arrivare e non passava più sotto i banchi a scuola. Un passo dopo l’altro, con i suoi pensieri arrabbiati, guardava per terra e non pensava a dove andava, ma solo camminava calciando i sassi, finché a un certo punto tirò su la testa, o forse solamente mise a fuoco, e si accorse che era arrivato in un posto che non aveva mai trovato prima. C’erano dei muri rotti, una casa che era crollata e non aveva più il tetto. Dentro c’erano delle sterpaglie che era meglio non metterci i piedi, che chissà quante vipere trovavi. Però girando dietro l’angolo c’era la sorpresa, che sembrava che qualcuno ancora lo curasse quel giardino della casa rovinata. Infatti Mario vide che c’erano dei platani, che erano i suoi alberi preferiti, piantati tutti in tondo e sotto l’erba era segata che sembrava un tappeto verde. Quei platani erano molto cresciuti, dovevano avere cento anni e dentro al cerchio il sole non passava, c’era l’ombra e sembrava proprio un posto dove mettersi a pensare. Mario ci andò nel mezzo e guardò insù sdraiato comodo. Le foglie si muovevano per il vento e da lontano si sentiva il suono di un trattore in mezzo ai cip cip degli uccelli. Più in alto c’era il cielo che era talmente illuminato da essere quasi bianco. Mario si perse a seguire i sentieri tracciati dalle macchie verdi e marroni sulla corteccia di uno dei platani, c’erano zone chiare e altre scure che scappavano e poi si mescolavano, come quando lui giocava a rincorrersi con i compagni a scuola e tutti schivavano e giravano intorno a tutti, il tronco era grigio, marrone e verde, poi anche un po’ rosa… i contorni erano delle linee che facevano delle curve, e più Mario le guardava più diventavano pigre e lente… e come stava bene Mario a non far niente messo lì… Dopo un tempo che Mario non lo sapeva quanto ne era passato, a un certo punto si accorse che le foglie si muovevano parecchio e il vento era diventato forte, e il trattore non si sentiva più, che invece il fischio dell’aria si infilava nelle orecchie e faceva anche freddo, era venuto brutto e il cielo, altro che luce, adesso era grigio che sembrava inverno. Stava per piovere, meglio tornare dalla nonna che poi se arrivava bagnato si arrabbiava, come quella volta che per punizione non l’aveva fatto uscire per un giorno intero. Si tirò su e cercò di orientarsi, che si sentiva ancora pesante di pane, e fu in quel momento che vide un cono scuro alto da terra più delle case, che si muoveva e girava e sembrava davvero che andasse dove c’era lui. Mario un coso così l’aveva visto solo in tivù e non era tranquillo, solo che mentre lo guardava cominciò a piovere così forte, con delle gocce così grosse che la prima che gli cascò sulla testa gliela bagnò tutta. In un attimo era già fradicio e ancora non era uscito dal cerchio dei platani, perché a dire la verità Mario non ci capiva più niente, la casa rotta non si vedeva più e se prima guardando vedeva fino alla collina gialla, adesso tutto era scomparso nel grigio fitto che era sceso giù. Il cono intanto si avvicinava e Mario non si era ancora mosso di un metro, ma forse, pensò, era meglio stare lì ormai, almeno i platani erano così grandi che forse lo avrebbero protetto e si mise ad aspettare guardando il cono farsi sempre più grande con gli occhi spalancati e impauriti.

Cosa successe di preciso Mario non lo capì, sapeva solo che stava roteando nel vortice grigio tenendo per mano una bambina con le treccine che gli urlava qualcosa, gli stava chiedendo dove siamo? che posto è questo? Mario, un po’ stranito, le rispose che erano in un cono. Sì lo so, disse la bimba, ma c’è una città qui vicino? Sì, quella dove abito io. E come si chiama, dimmi il nome, urlava la bambina mentre lo teneva stretto e roteava nel vento. Si chiama Smeraldina disse allora Mario. Evviva!!! Urrà!!! gridò la bimba, finalmente l’ho trovata. Il cono continuava a vorticare e Mario cominciava a sentire le fette di pane imburrato che si ribellavano nella pancia. Per fortuna quasi subito il cono delicatamente li posò a terra e scomparve lasciandoli proprio in pieno centro. Mario si guardò intorno sbalordito ma aveva già capito che non era capace di capirla questa cosa. Perché volevi venire qui? le chiese. Perché ci abita un mago che può farmi tornare a casa. Ah, non lo sapevo, disse Mario sorpreso che ci fosse un vero mago proprio nella sua città. Come ti chiami? chiese alla bambina. Dorothy e devo trovare una casa di mattoni rossi con le finestre a punta e delle teste di leoni e serpenti sui muri, è lì che abita il mago, tu l’hai mai vista una casa così? Mario sì lo sapeva dov’era, che gli faceva anche un po’ paura, e chiese alla bambina se voleva andarci a piedi o in barca, perché Smeraldina era una città con l’acqua. Dorothy voleva fare presto e decise per la barca, e meno male che c’era il barcaiolo, che i canali e le strade si sovrapponevano e intrecciavano e tutto andava a zigzag e Mario, per dirla tutta, soffriva il mal di mare. Dorothy era contenta mentre navigavano, lo capiva perché aveva un sorriso sulla faccia e cantava una canzone molto bella. Lo sai, gli disse Dorothy, che io sono stata sull’arcobaleno? Mario rimase a bocca aperta ma, dopo tutto quello che era successo, come faceva a non crederle? Lassù i sogni diventano realtà, continuò lei, oggi sono così felice che voglio farti un regalo: ti dico la strada per arrivarci così potrai far avverare un sogno tuo. Mario sull’arcobaleno? Ancora meglio della sua mamma che lo aveva attraversato con la macchina! E come ci arrivo? chiese, non so mica volare! Non ti preoccupare, ti ci porta il tornado. Ah, ecco come si chiamava quel cono grigio, Dorothy aveva battuto le mani e il tornado era arrivato portando con sé un vento sempre più forte finché Mario si ritrovò di nuovo a girare nel vortice, ma stavolta senza la mano di Dorothy a dargli coraggio e con lo stomaco che subito cominciò a farsi sentire e che mal di pancia e oddio, mi sa che vomito e…

Mario si toccò la faccia, era bagnata, stordito aprì gli occhi e in alto vide le fronde degli alberi in cerchio e le foglie agitate dal vento forte e grossi goccioloni di pioggia che si spiaccicavano. Si tirò su che era sdraiato per terra e un nuvolone grigio come un topo gli stava proprio sulla testa e buttava giù secchiate d’acqua cattive e pesanti, in quella confusione di foglie e acqua e vento, che qui sono ancora dov’ero prima e… piove, orco boia, son già tutto bagnato e forse adesso ritorna il cono e… in quel mentre lo stomaco lo tirò giù e vomitò tutto lì, proprio nel mezzo del cerchio su quel bel prato segato. Mamma come stava male, si poggiò a uno dei tronchi e, mentre ascoltava se la pancia la smetteva di spingere sulla gola, il nuvolone passò oltre, pressato da quel vento veloce e la pioggia finì. Di colpo c’era di nuovo il sole. Mario pensò che forse faceva in tempo ad asciugarsi prima di tornare dalla nonna e scamparla la punizione, quasi quasi si toglieva i vestiti e provava a stenderli sui cespugli intorno ai platani. Mezzo nudo e solo, in mutande, magro come un cavicchio e pallido, che la pelle era ancora quella della scuola e vomitare lo aveva sbiancato anche di più, si appoggiò su un muretto, e il sole faceva brillare la campagna. Si sentiva di nuovo il trattore lontano che ronfava e il caldino lo faceva stare meglio. Era stato un sogno quella bimba, lei, e il tornado, e la città, con le strade e i canali e tutto, anche di andare sull’arcobaleno se l’era sognato, che tristezza, che quello sì che sarebbe stato bello. Gli era tornato il muso, anche se adesso almeno aveva la pancia vuota. Si alzò in piedi e cominciò a lanciare dei sassi, che voleva arrivare oltre quel fosso là in fondo, e tirava con una rabbia… poi lì, liscio senza un pelo, piccolo e tutto ossa com’era, si voltò e lo vide. Era dietro di lui, era bastato girarsi, un arcobaleno gigante, immobile e… e… alto come il cielo, davvero era tutto colorato, era vero davvero, tutti i… colori. Mario lo guardò quasi senza respirare finché quello non sbiadì e scomparve. Quando tornò dalla nonna, rivestito e asciugato, il muso gli era passato e negli occhi ormai si vedeva che era diventato grande, vero nonna?

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Questo racconto partecipa agli EDS (Esercizi Di Scrittura) proposti da La donna Camèl
EDS – Arcobaleno
Queste le regole:
– 1 arcobaleno intero
– 20 grammi di magia non di più
– 1/2 tazza di personaggio letterario scappato da un romanzo, fumetto, film, canzone, videogioco o opera di fantasia in genere
Ecco gli altri blogger che hanno scritto racconti con queste stesse regole:
Pendolante: Temporale primaverile
La Donna Camèl: stiamo aspettando il suo racconto
Melusina: Bazar e Il morbo infuria
Dario: Cicciuzzu Babbaluci e Pinocchio
Hombre: Il professore delle favole
Lillina: Frammenti di vita
Leuconoe: Alice nel paese dei cosplayer
Angela: Tramonti
Gordon Comstock: Madonna segreta
Stefano Bersanetti: La grande bolgia e Spifferi di luce
Il coniglio mannaro: Avventura al policlinico
Michele Scarparo: Magia al Polo Sud
Il pendolo: I custodi del lunedì mattina
Per non sprecare una vita: Di padelle ne è piena la Storia