Due anni. Erano due anni che non andavo più al cinema. A tal punto la mia vita si era appiattita sulle necessità di isolamento dettate dalla pandemia da Covid. Per me questa lontananza è stata una sorta di amputazione, ma me ne sono accorta solo quando al cinema ci sono tornata, prima ero concentrata sullo sforzo di seguire le regole e di preservare la mia salute. Mi mancava tanto la sala cinematografica, ma mi ero convinta che occorresse fare di necessità virtù. Perciò mi sono abbonata a canali televisivi a pagamento per sopperire alla crisi d’astinenza da cinema e, per due anni, mi sono nutrita di questo cibo palliativo, come un malato attaccato a una flebo che serve a sopravvivere ma non dà nessun gusto.

Entrare in sala e scegliere il mio posto preferito, un po’ in fondo. Guardare gli altri spostare le tende e, un po’ incerti, sedersi soli o in compagnia. Sentire il brusio delle chiacchiere contente. Via le sciarpe, le giacche, le borse ammucchiate su una poltroncina vuota lì di fianco. Con le luci accese sorbire a piccoli sorsi preziosi i trailer dei prossimi film. Riconoscere il familiare scontento brontolio prodotto dalla mia mente quando si spengono le luci per costringermi a guardare la pubblicità. Alzare lo sguardo e trattenere il fiato nell’attimo che precede il dispiegarsi potente delle immagini che mi sovrastano. Lasciarsi invadere dai suoni che riempiono ogni spazio intorno e dentro di me. Sentirmi presa come da un’onda che mi solleva e mi fa sentire come una bambina che gioca con l’acqua del mare. Inizia il film. Immersa nel liquido amniotico del cinema, buio e protettivo, accolgo le immagini e mi lascio andare.

Siamo negli Anni 30 del secolo scorso, le auto sono poche, i viaggiatori ancor meno. Il ritmo è più lento, il mondo è più semplice, il Nilo è un luogo esotico riservato ai pochi che possono permettersi di vivere senza lavorare, perché un viaggio non dura qualche giorno, ma qualche mese. E noi privilegiati siamo lì.
Il battello scorre placidamente sul fiume e tutto ciò che dobbiamo fare è affacciarci sul ponte per godere lo stupore della natura ancora intatta, dei monumenti solitari che aspettano solo noi. Un mondo perduto, come ci era sembrato perduto il nostro durante questa pandemia, ma che il grande schermo ci permette di ritrovare, intatto come le nostre emozioni.

Non voglio addentrarmi nella critica cinematografica della pellicola di Kenneth Branagh, qui al suo secondo film col personaggio di Hercule Poirot tratto dai libri di Agatha Christie. Non è tempo questo per puntigliare su eventuali cliché cinematografici, presunte superficialità di regia, nevrotiche sottolineature di mancata adesione al testo. Questo è il tempo per godere della maestosità delle immagini, della calda saturazione dei colori, della classicità immortale dei temi, della bellezza dei costumi, dell’arguzia di Poirot. Perché è nutrimento vitale per la nostra anima esporci al grandioso, dopo troppo tempo di misure domestiche.