Il sapore ferroso del proprio sangue gli riempiva la bocca e per un momento lo distrasse dal dolore. Era certo di non aver mai assaggiato ferro in vita sua, eppure era in grado di riconoscerne il sapore e l’odore, lo stesso – a ben guardare – degli spiccioli di euro che gli lasciavano cadere nel bicchiere. Un calcio allo stomaco interruppe i suoi pensieri piegandolo in due e poi raggomitolandolo in difesa come un insetto. Porcellino di terra lo chiamavano quel piccolo crostaceo che raccoglievano da bambini giocandoci poi come fosse una biglia. Quasi sorrise nel constatare lo scambio di ruoli. La legge del contrappasso. Un colpo di spranga alle reni lo aprì dal suo guscio flettendogli la schiena e inarcandolo indifeso, porgendo il corpo al supplizio dei colpi successivi. Le braccia a difesa del capo, vedeva gambe saltellargli attorno, forse tre paia, ma non era certo dell’attendibilità dei suoi occhi che uno stivale nero continuava a pestargli la testa in colpi successivi che dove diavolo la prendeva poi tutta questa energia mica lo sapeva che a volte lui faceva una fatica persino a camminare. Di certo quel giorno avrebbe fatto meglio ad alzarsi prima da quel vicolo di quel nuovo quartiere e andarsene a cercare la colazione all’ingresso della metro. Glielo diceva sua madre che la pigrizia non paga. Nemmeno si accorse subito della tregua, troppo impegnato nel dolore, che certe sensazioni sanno essere tiranniche e invadere l’intero essere. Schizzi di sangue a disegnare qualcosa sul muro della casa che lo aveva protetto dal freddo. Si sforzò di mettere a fuoco, di individuarne i contorni, risalire a figura, come nei quadri di pittura puntiforme impressionista. Li ricordava bene dalla sua vita precedente, prima del suo diventare fantasma agli angoli delle strade. Un colpo secco gli spezzo in due la tibia. Un modo gentile di attirare l’attenzione. A fatica, rantolando, sanguinante, spezzato nelle ossa, intontito dai colpi, ma incredibilmente e involontariamente vigile, spostò la sua attenzione sui quattro che lo sovrastavano a semicerchio. Sputandogli addosso, vomitavano insulti, gli dicevano di sloggiare e di non farsi più vedere da quelle parti. Parlavano di territorio, di decoro del quartiere, dei suoi “stracci puzzolenti”, di pericolo per i bambini, di famiglie per bene e dei loro diritti alla tranquillità e l’assurdità della situazione, l’incomprensibile ottusità di chi con la violenza di un pestaggio pretendeva di ottenere tranquillità da un individuo mite, lo scosse in un isterico, doloroso, attacco di risa fiottanti sangue. Non si meravigliò molto quando il picchiatore dei quattro, schiumando rabbia, si chinò su di lui con il pungo alzato: sospettava non fosse munito di senso dell’umorismo. Guardò quel suo viso da ragazzino rabbioso, i suoi occhi pieni di un odio ingiustificato, ingiustificabile, i tatuaggi che da dietro l’orecchio gli scendevano sul collo per sparire dentro la t-shirt nera. Un teschio, una svastica, le rune, una croce bianca… la banalità di un’iconografia così classica da essere impersonale. Eppure mezza nascosta, sbiadita e coperta in parte da inchiostro più recente, una piccola chiave di SOL, una chiave di violino che apriva le porte a un suo modo di essere e pensare precedente, a una vita di scuola e amici e musica suonata, così importante da farsela tatuare addosso. Dimenticata. Su quella chiave di SOL si fissò mentre il primo pugno gli spezzò il volto. La guardò finche i suoi occhi furono in grado di vedere, poi il buio.


“7 Note” : testi di Katia Mazzoni
Fotografie di Filippo Maria Fabbri
Progetto I magnifici 7