Sarchi_coverAlessandra Sarchi (1971) – reggiana di nascita ma bolognese di adozione, autrice di altri due romanzi e un libro di racconti, traduttrice per Einaudi dall’inglese, firma de ‘il manifesto’ e di altre testate – ha scritto questo libro pubblicato a febbraio scorso dalla casa editrice Einaudi e vincitore del premio Opera italiana al Premio letterario internazionale Mondello 2017.

Questo commovente, intrigante, profondo e illuminante romanzo racconta la storia di un’amicizia tra due donne. Entrambe hanno perso l’uso delle gambe e si muovono sulla sedia a rotelle, però sono molto diverse tra di loro.

La protagonista, più riservata e introversa, è attratta da Giovanna perché in lei trova una sorprendente capacità di essere vitale e desiderante nonostante la disabilità. Le dà il soprannome di Donnagatto perché è volitiva e leggiadra come un felino. Quell’incontro sarà per lei l’occasione per confrontarsi con se stessa e provare a scandagliare le profondità abissali nelle quali ha rinchiuso tutto ciò che era e non è più, tutto ciò che si nega e forse può avere, tutto ciò che non fa e che forse può fare.

Non è un libro autobiografico, anche se l’autrice ha attinto dalla sua esperienza personale: Alessandra Sarchi aveva circa trent’anni, un compagno e una piccola figlia, quando si fratturò la schiena in un incidente automobilistico.
In questo romanzo raccoglie dentro di sé – per regalarli a tutti noi che la leggiamo – i sentimenti e le emozioni, le ragioni e le rinunce, il dolore e la forza dell’esperienza fisica e psicologia che si vive dopo un incidente molto grave.

«Di recente mi è capitato di vedere in tivú un intervista a John McEnroe in occasione dell’uscita della sua autobiografica. Campione di stile e tecnica nel tennis tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, il numero uno delle classifiche mondiali è diventato un brizzolato e atletico dispensatore di battute in tipico stile dry humour. A un certo punto, mentre proiettano sul fondo dello studio televisivo sequenze dell’incontro più importante della sua carriera, quello disputato con Björn Borg a Wimbledon nel 1980, McEnroe si alza dalla sedia e fa una cosa che mi appare incredibile: s’inchina col capo e col busto a se stesso, cioè all’immagine vittoriosa e giovanissima di sé che scorre nel filmato.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime e non faccio nessuno sforzo per trattenermi. Mi abbandono a un pianto disperato e voluttuoso, cercando invano un fazzoletto.
McEnroe stava salutando un se stesso passato, morto. Era come se dicesse: sei esistito, sei stato quel campione ammirato da tutti. Ora che non sono più te, ora che sono diventato un altro, ti ammiro anche io, ti riconosco per quel che eri. Ti rimpiango.» (Da pagina 5 del romanzo)

Alessandra Sarchi: «Accorgersi che non ci si appartiene mai del tutto ma che c’è sempre un altro che ci abita, anzi, più di uno, è una scoperta importante per la nostra identità di persone e anche per la nostra identità di cittadini. La letteratura aiuta a fare questo proprio perché ci mette sempre in contatto con una diversità di sguardo, che talvolta non ci appartiene ma che ci aiuta a vedere noi stessi e il mondo in una maniera diversa. In questo allargamento, nella comprensione di una diversità c’è anche la possibilità di vedere più cose. La letteratura aiuta a vedere più cose, più cose di quelle che normalmente vediamo di noi e del mondo.»

Quella che segue è parte dell’intervista che Alessandra Sarchi ha rilasciato al programma radiofonico La bomba di Radio Deejay presentato da Vic e Luciana Littizzetto:

«Luciana Littizzetto: Perché hai deciso di raccontare questa storia? Leggendo il libro non si colgono intenti pedagogici o di ribellione. È come se fosse un flusso di coscienza, cioè: ti racconto profondamente, con una sonda, quello che sta succedendo.
Alessandra Sarchi: La struttura del romanzo è costruita intorno all’incontro di due donne che si trovano nella stessa condizione ma che la vivono in maniera molto diversa. Quando si pensa a persone che vivono una disabilità fisica le si mette tutte in una stessa categoria. Invece ognuno la vive in maniera molto diversa e le categorie non raccontano mai la storia degli individui. A me invece interessava molto raccontare una storia di persone che si trovano ad affrontare una gravissima difficoltà, che cambia completamente il loro orizzonte di percezione di se stesse e di percezione di se stesse nel mondo. Per questo, come dici tu, è un flusso di coscienza. È uno scavo in quello che si vive dall’interno, che credo sia valido per tutti, anche per coloro che non vivono una condizione così estrema. Quello che noi vediamo dall’esterno della corporeità delle persone è sempre davvero una specie di superficie, la punta dell’iceberg. Poi quello che c’è dietro, nel bene e nel male, rimane una storia mai raccontata. La storia del corpo di ciascuno di noi è una sorta di grande archivio tenuto nascosto che, se va bene, spunta a un certo punto con la vecchiaia in un ammasso di rughe, se no non si rivela mai.
Littizzetto: È un libro di grande profondità, di grande intensità però anche luminoso. Sai quando leggi un libro è dici “Ahhh, adesso capisco, ho fatto bene a leggerlo”. Mi è piaciuto perché mi ha spiegato certe cose della vita. Riguardo il discorso delle categorie tu scrivi: “Non avevo mai amato lo spirito di categoria, la solidarietà imposta dalla condizione. Come se per forza ci si dovesse trovare simpatici tra persone con un problema simile. Come si ci si trovasse simpatici tra biondi, mori o laureati.”
Sarchi: Tant’è vero che l’alter ego della protagonista è una “Donnagatto”, quindi ha dei superpoteri, almeno nell’immaginazione. Ma in un certo senso ce li ha anche nella realtà, fa cose che dall’esterno nessuno si immaginerebbe. Piano piano si scopre che questa donna ha una vita segreta e questa è l’alterità nell’alterità. La sua vita segreta è anche la vita dell’immaginazione, quello che uno si dà per vivere. Tutti noi viviamo in un mondo immaginario, abbiamo la realtà ma poi abbiamo un sacchettino di immaginazione che ci accompagna sempre.
Littizzetto: La differenza tra la voce narrante della protagonista e la Donnagatto è che quest’ultima desiderava ancora moltissimo la bellezza. Invece la voce narrante dice: “Io forse avevo sperperato il desiderio, dissipate le illusioni, ero stanca, con una figlia piccola e un compagno ancora giovane. Non avevo capito quanta rabbia mi potevo permettere ma mi ero imposta un’economia: tenevo a bada la bestia.”
Sarchi: Dobbiamo darci una misura, non ti può divorare. È allo stesso tempo un’azione di contenimento che tu fai nei confronti di te stessa ma anche nei confronti di chi ti circonda, ma perché li vuoi proteggere.
Littizzetto: E poi la descrizione del corpo, presentissimo in questo libro. C’è l’anima, c’è il pensiero, c’è il desiderio, c’è la rabbia eccetera, ma c’è anche molto il corpo. Quindi continuamento bisogna fare i conti con questa realtà. C’è un pezzo molto bello dove tu rivedi la foto di quando sali le scale del tempio di Taormina.
Sarchi: Per me quella foto chiude un periodo, un secolo, perché è scattata nel 1999, una foto presa da dietro quindi uno vede se stesso di schiena lanciato verso il futuro, che poi è cambiato radicalmente.»

Vi lascio infine con le lapidarie e precisissime parole di Michela Murgia che ha presentato questo romanzo nella trasmissione Quante storie su Rai 3.

Michela Murgia: «È la storia di un’amicizia, è la storia di un cambiamento, ed è una storia che ci dimostra, con ampiezza di linguaggio e una forza di trama che raramente si vede nei libri, che la abilità è quella del pensiero e che la mobilità è quella della speranza. Il resto, se vuole, segue, altrimenti siamo tutti un po’ disabili.»

Alessandra, SarchiLa notte ha la mia voce, Einaudi 2017