Premessa.
C’era una volta un ragazzo africano di diciassette anni. Dal Congo aveva viaggiato fino a Vienna per far sentire la propria voce e quando aveva aperto bocca tutti erano rimasti strabiliati ad ascoltare. Serge Kakudji era un controtenore autodidatta, ma come lo cantava lui Mozart…
C’era una volta il colonialismo belga in Congo, tanto che oggi Bruxelles “è ancora in parte una città africana”. Così almeno la pensano quelli del KVS – teatro della città – dove trova spazio l’incontro tra culture e dal quale parte sostegno concreto ad artisti e istituzioni congolesi perché “le arti contemporanee non sono più una questione puramente occidentale”.

E fu così che il ragazzo di Kinshasa e il responsabile dei percorsi africani del teatro KVS, Paul Kerstens, entrarono in rotta di collisione e in quello “schianto” artistico restò coinvolto anche Alain Platel, famoso coreografo belga, collaboratore anche lui del KVS, che ha curato la direzione artistica della messa in scena di “Coup fatal” (Colpo mortale), spettacolo ideato da Kakudji e Kerstens.
Ma non fatevi ingannare, non c’è niente di mortale in questo spettacolo pieno di vitalità e allegria, il colpo mortale semmai viene assestato alla cultura “alta”, preservata, quella immobile e anche un po’ già morta di suo.

Aspettando l’inizio.
Attratta dal nome di Alain Platel compro il biglietto ed entro a teatro. Seduta in platea e osservo la gente che arriva, attività interessante perché c’è un po’ di tutto: studenti universitari di arte e spettacolo, distinte signore con la messa in piega, artisti che se non si vede subito che sono creativi non va bene, registi teatrali fuoriusciti da Pontedera dopo la morte di Grotowski, cantanti alternative, anziane dame con le Valleverde ai piedi, addetti ai lavori e gente come me, cresciuta a pane e Vittoria Ottolenghi.

Il sipario è aperto, sul palco ci sono gli strumenti musicali appoggiati per terra e sul fondo del palcoscenico una tenda composta da tanti fili di pezzetti metallici che, solo dopo, scoprirò essere bossoli esplosi di proiettili raccolti in zone di guerra in Congo, opera di un artista di Kinshasa, Freddy Tsinda, che crea utilizzando esclusivamente questo “materiale”.

Lo spettacolo.
Entra in scena un chitarrista, poi un ragazzo in sedia a rotelle che suona un likembe elettrico. Inizia il duetto ma presto viene interrotto dal rumoreggiare sguaiato degli altri che invadono il palco correndo e fischiando e ridendo, agitando sulle teste delle sedie di plastica blu, molto comuni in Congo. Allegria, chiasso, musica, movimento, confusione ma, improvvisamente, la musica tace e gli artisti cominciano a muoversi al rallentatore. È la prima scelta coreografica dello spettacolo, quasi a volerci mostrare che se ci infiliamo nelle pieghe di quella confusione, tra un lazzo e un fischietto, oltre l’impatto di buffoneria simpatica, se guardiamo bene l’attimo prima del sorriso vedremo un volto serio, uno sguardo profondo. Ma è solo un attimo, subito la musica torna, salti e capriole anche. Forse a dire che il modo che il Congo sceglie per affrontare le sue paure è anche quello di travestirsi di allegria e colori. Concetto che torna poi nel finale, quando tutti gli artisti sono in scena vestiti da sapeurs, i dandy di Kinshasa, gli elegantoni! Abiti colorati ed eccessivi, per non pensare alle guerre, per essere vivissimi qui e ora, abiti scelti per sentirsi dire “che belli che sono”, come ha fatto una spettatrice della prima fila, come penso faranno le donne di Kinshasa. A ben guardare, tutto lo spettacolo sembra intessuto da questo dualismo, da un lato l’allegria vitale, dall’altro il dolore e la morte. Quando Serge Kakudji comincia a cantare, sorprendendo tutti con la sua meravigliosa voce lirica, sono le nostre canzoni barocche, Händel, Bach, Gluck, Monteverdi, Vivaldi, a parlare di abbandoni – Che farò senza Euridice – di umiliazioni – Lascia ch’io pianga mia cruda sorte – amore e morte. Gli arrangiamenti rock, pop, jazz e gli strumenti africani si appropriano di queste arie, che escono così dalla teca impolverata per riprendere fiato e giungere fino a noi. Ma uno dei momenti più emozionanti dello spettacolo arriva con la canzone To be young, gifted and black, di Nina Simone, divenuta simbolo dell’orgoglio nero: “Essere giovane, di talento e nero, oh che splendido sogno prezioso, essere giovane di talento e nero, apri il cuore a quello che voglio dire”.

Gli artisti sul palco non si limitano però a suonare e cantare, ciascuno sa infatti usare il proprio corpo come uno strumento vibrante di potenza e ritmo. Qui i musicisti sono anche i danzatori e ogni singolo gesto è espressivo. Quando lo xilofonista Tister Ikomo guadagna il centro del palco, abbandona il suo strumento per terra e guardandoci dritto negli occhi inizia la sua danza fatta di braccia, bacino, spalle, schiena, cosce, occhi e sorriso… ci sentiamo invasi dall’Africa al punto da desiderarla.

Per un’ora e quaranta siamo rapiti dall’Africa, che ha rapito la nostra musica e ce la restituisce arricchita, più viva e vera. E la verità di questo spettacolo la posso testimoniare di persona. Infatti vagando alla ricerca dell’uscita, gli artisti ormai nei camerini a togliersi i colorati abiti da sapeurs, mi ritrovo per sbaglio in un corridoio deserto ed ecco che una porta si apre e appare uno degli artisti, in mutande! E le mutande, miei cari, erano viola!