Ispirato a eventi reali

L’inverno di Londra è notoriamente grigio ed inclemente. Una fitta nebbiolina umida si prolunga dal giorno alla notte fino al primo pomeriggio.

Costretta dalla fame e dalla noia, Lea si rassegna a scollarsi dalla finestra. Raccattando le poche cose che aveva preso con sé nella furia della fuga da casa e prendendo in prestito l’ombrello di Viola scende le scale, controvoglia apre il portone e si guarda intorno sperando di intravedere una pensilina per la fermata degli autobus. Immediatamente il lento rosso vecchio numero 9 si fa strada nel traffico assonnato e Lea si affretta mentre armeggia con l’ombrello mezzo aperto. Scusandosi ripetutamente, penetra la coltre di persone e si ritrova impettita tra due energumeni biondi, chinati a studiare la mappa della città commentandola in una lingua dagli accenti duri. Venti minuti dopo cominciano a spuntare le torri della City e Lea si prepara ad affrontare il ritorno. Non potrà scappare per sempre, si ripete quando vede il cartello Canary Wharf e si avvia tra gli eleganti profili anonimi dalle scarpe marroni e gli ombrelli neri, inutili in questo vento obliquo che bagna le ossa.

Con le mani impacciate sulla porta di casa Lea ascolta i rumori all’interno; tutto tace. Gira la chiave, trattiene il respiro, spinge. Qualcosa la blocca. Le scarpe intraviste ai piedi del letto sono da donna, sì, ma non sono le sue. E di chi è quell’orribile panno color tortora sul letto? Un reggiseno bianco di pizzo, una T-shirt stropicciata. Il primo impulso è di correre via, ma la curiosità prevale e infilando la testa nello stretto spiraglio Lea vede il monolocale animato da una vecchia TV con l’antenna coperta di stagnola e sudici scatoloni mezzi disfatti dappertutto. Niente di tutto questo è suo né di Ricky.

Il sollievo immediato di questa constatazione si scontra con la rivelazione che la colpisce come uno schiaffo in bocca: Ricky se n’è andato, lei non sa dove, non lo saprà mai, né lui né Sandocat né i suoi vestiti e il resto delle sue cose. Dove saranno i suoi diari? Gettati a rimestare puzzolenti in un cassonetto? E le foto, i vecchi CD che non aveva il cuore di rivendere al mercatino dell’usato? E se invece Ricky la stesse cercando dappertutto? Magari la sta aspettando! Avevano già litigato tante volte, si era sempre sistemato tutto. In fondo cos’erano due urla e qualche livido, se si amavano davvero. E poi era stata lei a insistere perché ne riparlassero, se fosse stata zitta invece che provocarlo… era colpa sua se lui si era incazzato. Gli aveva fatto perdere la testa, con quel suo caratteraccio e il voler per forza analizzare ogni situazione e comportamento. Sì, lo avrebbe trovato, si sarebbe scusata e non l’avrebbe mai più costretto a usare la forza per farla tacere. Sarebbe stata brava e buona, gli avrebbe fatto trovare un piatto caldo e una birra in frigo ogni mattino quando tornava dal bar, non l’avrebbe più provocato e presto le cose si sarebbero sistemate da sole, i soldi avrebbero cominciato ad arrivare, avrebbe spedito a suo padre in Italia tutto quello che le aveva prestato e anche un bel regalo di Natale per il nipotino appena nato.

Lea sente dei passi dietro di lei, si affretta a chiudere la porta, cerca un nascondiglio nel corridoio ma poi c’è un grido di paura ed è il suo. Lea è contro al muro, i polmoni non si riempiono, una mano di ferro le attanaglia il collo e quattro occhi spalancati la osservano cattivi. “Che cosa stai facendo qui? Che cosa cerchi?” le chiede una voce rognosa. Lea annaspa, grugnisce, indica le chiavi che tiene ancora strette in pugno. “Stavi cercando di entrare in casa, brutta stronza ladra di merda, dammi quelle chiavi” la mano di ferro allenta la presa, e Lea ricade malamente a terra. Si porta la mano al collo, succhia aria bollente, attende l’arrivo del panico invece no, l’adrenalina la tiene vigile, allerta. “Vivevo qui! La settimana scorsa, vivevo qui!”, la voce roca di Lea supplica da terra. “Il mio partner… lui… si chiama Ricky O’Reilly, vivevamo qui!” “Sei una bugiarda, maledetta. Chi cazzo ti ha dato le chiavi?” le urla un donnone all’orecchio. Un calcio nel fianco riduce Lea a una massa informe sul pavimento freddo. Con le stelle negli occhi e una lancia nel ventre, rimane accartocciata immobile mentre il cervello corre a perdifiato. Dov’è Ricky? Se n’è andato? Ha traslocato? Non è possibile, è passato solo qualche giorno. E dov’è andato? Perché questi due lerci schifosi non ne sanno nulla? Che sia la casa sbagliata? Ma l’appartamento è uguale, è il suo, a piano terra. E’ il palazzo sbagliato? Quello a fianco, il numero 7? Ma la chiave? La chiave ha aperto la porta. È possibile che sia un passepartout?

Il pericolo di essere uccisa la spaventa meno della confusione nella sua mente. Lea lotta per rimanere lucida e si protegge il volto con le mani. “Per favore, per favore, non volevo rubare” si balbetta tra le dita “Credevo che fosse il mio appartamento, per favore, lasciatemi andare”. Il donnone parla con un forte accento del Nord dell’Inghilterra, Lea lo riconosce dagli episodi di Shameless, una delle serie TV preferite di Ricky. Sta dicendo che non manca nulla dall’appartamento, la puttana non ha fatto in tempo a rubare niente. La mano di ferro la strattona, la trascina al portone, la getta sul cemento freddo. Le budella sciolte e la testa in fiamme, Lea lascia che le gocce fresche della pioggia le rischiarino la mente. Si solleva su un gomito gemendo, si apre il cappotto e cerca la macchia di sangue sul fianco maciullato. Ma non c’è sangue, solo un bozzo gonfio, di fianco a quello già violaceo del tavolo scagliato attraverso la stanza. Lo stesso tavolo su cui adesso mangiano i due luridi sconosciuti.
Lea alza lo sguardo a fissare il numero 9 che sovrasta il portone. Il palazzo giusto. Casa sua. Non più.


Testo di Lisa Agosti già pubblicato il 17 dic 2014 su http://www.letturedametropolitana.it
Illustrazione di Arianna Farricella
Progetto Me too