Quest’ultima testimonianza chiude la serie Me too iniziata su questo blog quattro mesi fa. Un grazie di cuore a tutti quelli che hanno commentato, contribuendo ad alimentare l’importante dibattito intorno al tema delle violenze di genere. E grazie a quelli che hanno anche solo letto, perché a volte non ci sono proprio parole. Ma soprattutto grazie alle donne che mi hanno donato le loro testimonianze, che le hanno condivise con tutti noi regalandoci così strumenti preziosi per aiutarci finalmente a capire cosa sia davvero e ancora oggi la condizione femminile.

Infine un grazie speciale va all’illustratrice, perché senza le sue illustrazioni così centrate e originali, questo progetto non sarebbe stato lo stesso. Grazie Arianna!!! ❤

Vi lascio con le parole di Carla Lonzi: “Nessuno a priori è condizionato al punto da non potersi liberare, nessuno a priori sarà così non condizionato da essere libero. Noi donne non siamo condizionate in modo irrimediabile, solo che non esiste nei secoli una esperienza di liberazione espressa da noi”


8 ANNI

Quando ero piccola abitavo in campagna, in mezzo al nulla. In quel nulla c’erano solo quattro casette in fila, strano esperimento immobiliare rimasto in sospeso. Di fianco alle case scorreva una grande strada a quattro corsie, ma il traffico era pochissimo, nessuno passava di lì. Per il resto soltanto terra brulla, colline spoglie in lontananza e una piccola vigna nella quale andavo a scegliere i viticci arricciolati più aspri da masticare. Il vuoto si estendeva a perdita d’occhio e io, in mancanza di grandi cose da vedere, guardavo quelle piccole: cercavo i gambi di acetosella da succhiare che sapevano di limone e a volte fischiavano, il cuore bianco dei fiori di borragine per addolcire la bocca, le cavallette appoggiate ai muri che saltando facevano il solletico ai palmi delle mani, le eleganti mantidi religiose dalle zampe congiunte in preghiera, lo strabiliante verdino a pois arancioni del bruco macaone.

Un pastore ogni primavera portava le sue pecore a pascolare nelle distese deserte intorno a noi, un anno assistetti anche alla tosatura. Ero sempre sola. Mi incantavo a guardare le libellule con i loro colori trasparenti galleggiare leggere sul canale dalle rive cementate, arrivavo con la bici fino al primo ponte che mi sembrava tanto lontano da casa da farmi sentire un’intrepida avventuriera, avevo ricavato il mio rifugio in un cespuglio di ibisco dai fiori lilla, inventavo palcoscenici sui quali declamavo per un pubblico immaginario le poesie dell’enciclopedia I quindici e cantavo le canzoni dello Zecchino d’oro, facevo torte di fango decorate coi petali rosso velluto dei gerani, giocavo con le bambole e con il mio cane Baldo, rincorrevo le lucertole e scappavo quando incrociavo una biscia, una si era spinta fino alla porta sul retro della mia casa.

Nella prima villetta abitavamo noi, io avevo otto anni. Nella seconda una giovane coppia con una bambina di sei anni, nella terza una famiglia con un maschio di sedici anni e una femmina di dodici. La quarta era rimasta vuota, non era mica così facile trovare qualcuno disposto a vivere nell’infinito senso di abbandono che ci circondava.

Noi bambini non diventammo amici. Si direbbe che quell’isolamento avrebbe dovuto favorire la vicinanza e creare un legame, ma in realtà la solitudine di quel luogo ci era entrata dentro. Così giravo solitaria nei campi intorno a casa ed entravo indifferentemente in una delle tre case abitate dove, nei pomeriggi dopo la scuola, noi bambini restavamo incustoditi. Tanto in quella desolazione non c’era nessuno, cosa poteva capitarci?

La stanza da stiro era separata da una tenda, non da una porta. Lui aveva sedici anni, io otto. Vieni con me, disse prendendomi per un braccio e spostando la tenda. Dietro c’erano morbidi mucchi di panni da stirare e un disordine quieto e caldo che non sembrava minaccioso. Ma il suo ansimare non era normale. Toccami qui. Prese la mia piccola mano e la premette sui suoi jeans attillati. Sotto c’era qualcosa di allungato e molto duro. Era una durezza che mi faceva male alla mano, schiacciata dalla sua. Sapevo cosa c’era lì sotto, sapevo cos’era il sesso, l’avevo visto nelle foto delle riviste che mio padre teneva nel cassetto del suo comodino. Ma quel corpo che incombeva su di me, il doppio di me, quella volontà senza controllo che aveva di essere toccato, era spaventosa. Tenevo gli occhi sgranati e aspiravo l’odore dell’appretto che aleggiava nella stanza, sentivo il cuore battere molto forte, avevo paura. Lui allunga il suo dito sotto il mio vestitino, in mezzo alle mie gambe. Ferma, sto fermissima, sono stata educata all’ubbidienza con feroce severità, ogni moto di ribellione castigato con intransigenza quindi so cosa devo fare: stare ferma e aspettare. Ma la mia mente intanto vortica, incapace di aggrapparsi a qualcosa che serva per sentirsi meno sconvolta, una vertigine così rapida che ogni immagine familiare è annebbiata e imprecisa, perdo i contorni del mio mondo, ogni riferimento, non so più niente neanche di me.

Non dirlo a nessuno, mi raccomando, è un segreto, solo tra me e te, è importante non dirlo a nessuno nessuno. Hai capito? Nessuno!

In camera sua un pomeriggio si slaccia i jeans, sento il metallo freddo della cerniera che graffia e sotto, come un conato di vomito molle e rigido allo stesso tempo, ecco il suo pene caldo. Mi stringe il pugno dentro il suo, non sono brava, lui cerca di farmi imparare come si fa ma non sono capace, ho la pipì.

Un assurdo e imprevisto giorno di festa, i grandi ci portano tutti a vedere gli Aristogatti, un evento, il primo e unico film della mia infanzia, e lui si siede vicino a me e mi mette le mani sotto la gonnellina per tutto il tempo, o almeno così sembra a me, che quando esco dal cinema non ricordo niente del film.

Sto giocando a dama con la bimba di sei anni, lui si intromette: “Vi insegno gli scacchi, ci giochiamo in tre, voi due contro di me, però ciascuna deve fare la sua mossa senza che l’altra veda, perciò va nell’altra stanza.” E quando tocca a me muovere e la mia amichetta è nell’altra stanza in attesa del suo turno, lui ne approfitta per allungare le mani tra le mie gambe. Solo molti anni dopo, ormai adulta, mi viene il dubbio che stesse facendo la stessa cosa anche con l’altra bambina.

La notte piango nel mio letto, e prego e imploro Dio e Gesù di perdonarmi perché sono una peccatrice indegna, perché sono sporca, sporca, sporca. In classe guardo la mia compagna di banco, Stella, che invece è candida come una margherita, lei sì che è pura, come vorrei essere io come lei.

Poi un giorno sto camminando sulla strada polverosa che passa dietro la mia scuola elementare e costeggia un campo da calcio giallo e secco. Un gruppo di ragazzi grandi sta giocando, le ragazze a bordo campo chiacchierano tra loro e fanno il tifo. Un giocatore si stacca all’improvviso dal gruppo e cammina deciso verso una delle fanciulle, la abbraccia con un appassionato casquè e la bacia con la lingua in bocca. Fa questo gesto inverosimile davanti a tutti. E io lo riconosco, è lui. Gelata nel corpo sento invece la febbre nella mia mente, dunque ha un’altra, allora le cose che fa con me le fa anche con lei, ma lei la bacia in pubblico, io invece sono un segreto, lei è la sua ragazza e lui ama lei, lei è pulita, e io, sono, ancora, più, sporca.

Passano gli anni, frequento le medie in un istituto cattolico come educanda interna, sto lì tutta la settimana e torno a casa solo il sabato e la domenica. Non ci sono più occasioni delle quali lui possa approfittare e tutto sembra finalmente finito. Ma non il mio tormento interiore. Una domenica partecipo a un ritiro spirituale insieme alla mia classe. È previsto che, alla fine della giornata, ciascuna di noi si confessi. Il prete è giovane, indossa la toga nera ma porta i capelli scapigliati, ha un sorriso severo ma pur sempre un sorriso. Penso che forse questo potrebbe essere il momento giusto, penso che forse potrei infine liberarmi, chiedere perdono. Forse è oggi il giorno in cui potrei essere perdonata.

Dobbiamo aspettare in fila il nostro turno, poi entrare nella stanza dove il sacerdote ci aspetta. Non c’è il confessionale, mi devo sedere davanti a lui su una seggiolina bassa, sono davanti alle sue ginocchia e lui mi guarda dall’alto. Respiro profondamente, dentro di me tremo, una voce nella mia mente urla: no no no… è quella parte di me che non vuole dirlo mai, che vuol far finta che non sia mai successo. Ma io stavolta lo voglio dire, sì, e allora balbetto qualcosa, in preda all’orrore riesco a sbloccare la gola e spiego: avevo otto anni, lui era grande, mi baciava, la lingua rigida e umida nella mia bocca, e mi toccava e si faceva toccare…

Ma tu cosa provavi? Hai sentito piacere?


Testo di una blogger
Illustrazioni di Arianna Farricella
Progetto Me too