L’essere si muoveva fluttuando nell’atmosfera violetta.
Era anch’esso più simile a nebbia che a un qualsiasi organismo vivente normale, ma che fosse vivo era fuor di dubbio, così come non v’erano dubbi che solo un essere molto potente poteva contrastare i terribili venti di Urano.
Dall’osservazione dei suoi movimenti attivi e coordinati, un osservatore esterno avrebbe correttamente dedotto di trovarsi di fronte ad un organismo dotato di una qualche forma di intelligenza.
L’essere processava informazioni, sensazioni, osservazioni, traducendo il tutto in movimento e in qualcosa che potremmo chiamare “pensiero”.
Una delle sensazioni più dolorose che i suoi terminali sensoriali registravano oramai da secoli, era la progressiva riduzione dell’energia a disposizione per processare informazioni, muoversi e pensare.
Se l’essere fosse stato un organismo animale avremmo potuto parlare di fame, fame ogni giorno più disperata e pungente. La fame provocava nei pensieri dell’essere una brama di energia che era divenuta quasi insopportabile e un isterico ruotare su se stesso, come un enorme ciclone al polo di Urano rivolto verso il lontano Sole. Il pianeta rotolava sulla sua orbita come una biglia gigante, e l’essere ruotava attorno all’asse della biglia, nel tentativo di massimizzare la quantità di calore che raccoglieva il suo corpo enormemente espanso. I fotoni erano un flebile rivolo di nutrimento, uno stillicidio ininterrotto che non faceva che peggiorare la brama di energia vitale cui l’essere anelava con tutto se stesso.
Da qualche ciclo di quadrante l’essere aveva puntato i suoi sensori ottici su un minuscolo oggetto in movimento che puntava decisamente verso la sua orbita dopo avere lambito i satelliti più esterni di Saturno e avere sfruttato a mo di fionda l’enorme forza gravitazionale del Pianeta.
La sorgente emanava enormi quantitativi di energia, radiazioni infrarosse, neutroni e onde radio che si disperdevano concentricamente dalla sua superficie, annunciando la presenza di un tesoro inestimabile. Un pasto pantagruelico che avrebbe permesso all’essere di rigenerare completamente le sue scorte, fosse riuscito ad attingere direttamente alla fonte.
L’essere iniziò a reiterare ossessivamente un unico pensiero che avrebbe potuto esser tradotto in pura e semplice volontà di inglobare completamente la sorgente, ma “Ingoiare in un sol boccone” rende meglio l’idea di ciò che increspava la superficie dell’essere con onde sempre più alte e definite.
Milioni di chilometri più vicino al Sole, il satellite da esplorazione “Magellan II” si muoveva a circa trenta chilometri al secondo verso Urano e l’unico suo abitante. Il rendez-vous con il pianeta avrebbe permesso una analisi della superficie con radar ad apertura sintetica, due spettrometri e un paio di camere ad infrarosso. Le informazioni sarebbero state poi sparate, dopo una compressione digitale mostruosa, verso la Terra ed analizzate qualche ora dopo da sei gruppi di ricerca differenti, localizzati in quattro città di tre continenti. Il massimo avvicinamento era previsto da li a otto giorni, ma i sistemi automatici avevano iniziato a risvegliarsi da un po’ per essere al massimo dell’efficienza al momento giusto.
L’essere aspettava frenetico mulinellando senza sosta al polo illuminato del pianeta, tenendo comunque la sorgente di energia bene al centro dei suoi sensori ottici.
Finché, finalmente, la sorgente non fu che a qualche centinaio di migliaia di chilometri dalla superficie di Urano, a portata dei filamenti di plasma dell’essere. Il suo corpo si ramificò in rivoli ameboidi che protesero verso l’accorrente sorgente di energia le loro punte. Mancavano poche migliaia di chilometri al contatto e l’essere già ribolliva di gioia trionfante, pregustando di li a poche ore l’overdose di nutrimento.
Fu in quel momento che “Magellan II” mise in funzione il laser ad eccimeri, principale strumento scientifico della missione, in grado di penetrare chilometri di roccia.
Il raggio di luce coerente era stato pensato per trivellare in profondità la superficie di Urano, alla ricerca di bacini sotterranei di acqua congelata e di segnali spettrografici che indicassero una qualche forma di vita. I sensori del satellite in effetti registrarono enormi picchi di sostanza a base carbonica quando il laser spazzò le regioni polari di Urano, uniti a cicloni esagonali che percorsero per giorni la superficie del gigante violetto.
Se il “Magellan II” fosse stato fornito di sensori acustici (peraltro inutili nel vuoto), gli scienziati sulla Terra avrebbero ascoltato stridii e urla bestiali. Se fossero stati in grado di tradurre quei segnali dalla primitiva lingua dell’essere nel loro inglese moderno, l’avrebbero ascoltato morire incredulo tra atroci sofferenze, lui ultimo esponente della razza dei gassosi freddi.


“I 7 pianeti” : testi di Barney
Illustrazioni di Davide Lorenzon CRT2
Progetto I magnifici 7