«Una volta mi ha picchiata mentre mi possedeva. Dovrei dire mentre facevamo l’amore, ma quello era tutto tranne che amore. Ho portato i lividi dei suoi pugni sui fianchi per settimane. Mi muovevo sotto di lui, è stato questo il motivo della sua furia. Solo le puttane si muovono durante il sesso, le brave mogli cattoliche invece stanno ferme, attente a non godere perché non sta bene. Avevo vent’anni quando mi sono sposata. Erano i primi Anni 60, non si parlava certo di violenza sulle donne né di femminicidio. I panni sporchi andavano lavati in famiglia e se il marito ti prendeva a sberle magari gliene avevi dato motivo. Per chi non sapeva sopportare qualche schiaffo in silenzio non era così semplice separarsi. Il giorno in cui ho abortito la prima volta se n’è andato a caccia tutto il giorno. Si è arrabbiato tanto al suo rientro: il pranzo non era pronto. La seconda volta invece non era rintracciabile. Anni dopo ho saputo che era con la sua amante. Mi sono chiesta come sarebbe stato avere dei figli. Magari sarebbe cambiato, non avrebbe più alzato le mani per un nonnulla. I bambini gli piacevano tanto. Lui ha sempre pensato che la colpa fosse mia, che non fossi buona neanche a dargli il maschio che tanto desiderava. Anche di questo mi accusava durante le nostre liti più feroci. A volte penso che il mio corpo rifiutasse il suo seme, che liberarmi di quella parte di lui fosse un modo per ripagarlo delle botte che mi dava. Gli ho tenuto testa, questo sì. Ho sempre avuto un brutto carattere e la mia lingua sapeva ferire trovando il suo punto debole. Dove le mie parole si fermavano arrivavano le sue mani a completare l’opera. Il nostro matrimonio era una guerra senza vincitori.»

Ora sono anziani e malati, due vecchi stizzosi e colmi di acrimonia che continuano a litigare per la minima sciocchezza. Sono ingrati e pieni di pretese, pronti a rinvangare il passato rinfacciandosi le loro tante colpe, senza avere mai una parola gentile verso chi li circonda. Fanno parte della mia famiglia, ma non provo alcun affetto per loro. Ne ho pena e immenso disprezzo. Di quanto ero piccola ricordo bene le urla, il terrore anticipato per una parola sbagliata, i litigi che prendevano fuoco per la minima sciocchezza, una tavola apparecchiata con poca cura, una risata o un rumore di troppo durante il rito del telegiornale serale, lei trascinata via per i capelli durante il pranzo di Natale, una pantofola solitaria di traverso nel corridoio e i nostri giochi di bambine calpestati. Erano sberle che volavano spesso anche per noi, violente e ancor più dolorose perché senza un vero motivo, solo un modo facile per sfogare la frustrazione su chi era più debole e indifeso. Ne abbiamo prese più di quante meritassimo, questo è certo. Mi chiedo ancora oggi perché i miei genitori e i miei nonni, che pure abitavano quella grande casa, non fossero in grado di proteggerci meglio. Mi chiedo perché dovessimo assistere allo spettacolo indecoroso di due persone così incapaci di dare amore e tanto generose con la violenza, perché il sopruso dovesse essere tollerato senza ribellarsi. Eravamo spettatori paganti, ma il prezzo del biglietto è stato esorbitante e ha lasciato ferite profonde che non si sono ancora rimarginate, né mai lo faranno e lo dimostrano le scelte che tutte noi abbiamo fatto, vite solitarie, senza compagni, senza figli.
Quando ascolto le notizie di cronaca, il mio pensiero va alla vittima ma anche a chi viene lasciato indietro a contemplare la catastrofe e a rialzarsi tra le macerie, bambini che hanno assistito a spettacoli orrendi, piccole esistenze che dovranno fare i conti con il ricordo e cercare di essere migliori di chi li ha preceduti. Vivere non dovrebbe essere così doloroso. Nessuno lo merita.


Testo di Mela
Immagine di Arianna Farricella
Progetto Me too