Il campanile della chiesa si stagliava alto nell’azzurro ed era un appiglio per gli occhi, se per caso ti capitava di sentirli sperduti in mezzo a tutto quel cielo che nessuno sa dove inizia e dove finisce.
La ragazzina usciva dal vialetto della biblioteca con un libro sotto il braccio, che si intitolava La capanna dello zio Tom ed era uno dei soliti romanzi imposti dalla scuola, una prima media di paese con i muri grigiastri e scrostati che la prof di arte si era messa in testa di rinnovare con dei murales. Avrebbero dovuto raffigurare degli alberi in crescita, come i ragazzi che stavano sui banchi, ma il progetto era stato piantato a metà per mancanza di fondi, e così pure gli alberi.
I ragazzi invece continuavano a crescere anche senza progetti, a liberarsi in modo ranocchiesco e disomogeneo dei corpi da bambino per diventare grandi, chi prima chi dopo, ciascuno come capitava. La ragazzina faceva parte dei “dopo”, con la sua magrezza eccessiva, il seno ancora completamente piatto e le mestruazioni che non accennavano a presentarsi.
“Ti piace leggere?”
Un uomo aveva accostato l’auto in modo da bloccare il vialetto d’uscita della biblioteca e le stava rivolgendo la parola, lo sguardo puntato sul libro che portava sotto il braccio.
La ragazzina scrollò le spalle.
L’azzurro del cielo era immobile, la macchia scura di un uccello lo attraversava tagliandolo in diagonale, con un volo silenzioso.
“Io lo odiavo, avrei ucciso la prof di lettere.”
L’uomo rise, mostrando denti bianchissimi, distanti gli uni dagli altri e irregolari, quasi non facessero parte di un insieme, non avessero in comune la medesima bocca.
“A me piace”, ribatté lei in modo automatico.
“Ah sì? E che libri leggi?”
“Non questo”, nascose il libro dietro la schiena, “cioè sì anche questo, ma solo perché ci sono obbligata… Mi piacciono i gialli.”
“Anche a me.”
Si chiese perché l’uomo indossasse un cappello di lana calato fin quasi all’altezza degli occhi, dal momento che era estate e faceva caldo e si sudava anche a stare fermi.
“E cos’altro ti piace?”
“Non lo so…”
“I romanzi d’amore?”
Ad un tratto le domande le sembrarono troppe.
L’uomo aveva una mano sul volante, mentre l’altra scompariva sotto una giacca che teneva appallottolata sulle ginocchia, e che per un attimo chissà perché alla ragazzina sembrò un cucciolo di cane o qualcosa del genere, qualcosa che respirava alzandosi e abbassandosi ritmicamente.
“Dovrei passare”, mormorò.
“Dove stai andando?”
La giacca prese a muoversi più in fretta, il respiro del cucciolo più affannoso, la sguardo dell’uomo pieno d’acqua melmosa.
“A casa.”
Iniziò ad avvertire una sensazione strana nella pancia, vagamente simile a quella specie di capriola che provava quando in auto con suo padre percorrevano troppo velocemente il dosso di fronte alla scuola, però più diluita e persistente.
“Sto aspettando mio padre”, le venne allora da aggiungere, subito rendendosi conto dell’incongruenza che c’era in quella frase, dato che aveva appena dichiarato di essere diretta verso casa. Ma l’uomo sembrò non farci caso.
“Perché non sali? Ti accompagno io. Tu in cambio mi mostri dove si trova la chiesa. Non conosco la strada.”
Gli occhi dell’uomo liquidi e scuri. Il vialetto deserto.
La ragazzina sollevò il viso e incrociò con lo sguardo il campanile della chiesa, alto e inconfondibile, e si scoprì a rilevare un’altra incongruenza. Nel giro di poco, in quella strana conversazione una seconda frase faceva acqua.
Come poteva quell’uomo aver bisogno di lei per trovare la chiesa, quando il campanile era a portata d’occhi?
Forse era colpa sua, era lei a non capire come stavano le cose, e del resto le capitava anche con quelle barzellette per adulti che c’erano nella Settimana Enigmistica di suo padre, quelle di cui le sfuggiva il senso, di cui non capiva l’ironia.
“Su, sali.”
“Devo andare…”
Cercò di infilarsi tra il muretto di cinta e l’auto, ma lo spazio era poco ed ebbe paura di rimanere incastrata, sentì il muro graffiarle la gamba sinistra, pensò di tornare indietro ma non lo fece, riuscì a insinuarsi ancora e infine a sgusciare oltre l’auto.
Prese a camminare a passo spedito, avrebbe voluto correre ma le sembrava fuori luogo, stupido e vergognoso. Se ti fai male, quando torni a casa te ne do il doppio, la minaccia di sua nonna, quando era piccola.
Ma a lei stavolta non era successo niente di male, si disse, proprio niente, e il doppio di niente non esiste. E allora perché si sentiva a disagio?
Si domandò se l’auto fosse ancora lì, a ostruire l’uscita del vialetto (non si voltò più), e se l’uomo ci fosse rimasto male per il suo comportamento, per il fatto che non lo aveva aiutato a trovare la chiesa. Era una cosa buona, andare in chiesa, anche se a lei non piaceva e quando suo malgrado ci veniva spedita, infilava la testa dentro la navata giusto il tempo di vedere quale prete celebrava messa, se il giovane o il vecchio, ed essere così in grado di rispondere a eventuali domande trabocchetto. Poi faceva dietrofront e se ne andava a giocare a pallavolo contro qualche muro, imitando le urla delle giocatrici giapponesi dei cartoni animati.
Quel giorno arrivò a casa che era già ora di pranzo, sua nonna le gridò che era in ritardo, che per colpa sua la carne si stava raffreddando, ma lei non le diede retta e si chiuse in camera.
Si guardò attorno, ferma in piedi al centro della stanza.
Ripensò all’uomo, alla bocca con i denti che non c’entravano niente l’uno con l’altro, e le venne l’idea assurda e spaventosa che fossero stati strappati da altre bocche e ficcati lì a forza. Ripensò alla giacca appallottolata che era una creatura ansimante, al campanile, e alle urla delle giocatrici di pallavolo giapponesi.
Si portò una mano sulla coscia e si toccò le escoriazioni provocate dal muro.
Avrebbero anche potuto sembrare segni lasciati dalla zampata di un cane.


Testo di Odette Copat
Illustrazione di Arianna Farricella
Progetto Me too