Per chi ha la fortuna di non frequentare assiduamente gli ambienti sanitari, una mattinata trascorsa in un ospedale in balìa delle periodiche visite di medicina di lavoro, può essere antropologicamente istruttiva.
Un ospedale grande, molto grande. Un enorme andirivieni di persone, utenti, degenti, baristi, segretarie, giornalai, infermieri, medici. L’impressione iniziale è che tutti camminino, milioni di passi uno dietro l’altro, un esercito di zoccoli bianchi a comporre un unico gigantesco sciabattìo che attraversa stanze, corridoi, scale e bui sgabuzzini delle scope. Se ti fermi a osservarli, piano piano riesci a dirimere il gomitolo dei loro percorsi singoli, li riconosci uno a uno, ne indovini le traiettorie.
Ci sono le impiegate all’accettazione, ognuno va al suo ritmo e, mentre le guardi, sembra che in ogni caso sia quello sbagliato. Allo sportello “uno” c’è l’iperattiva che ti sciorina informazioni al ritmo di circa seimila parole al minuto; in compenso, solo due metri più in là, da dietro al vetro “tre” occhieggia la donna più lenta del mondo, che sbriga alacremente una pratica ogni lustro, generando una certa isteria di ritorno nell’impiegata centometrista. Nel mezzo, c’è la signora che dietro al suo cristallo trasparente numero “due”, in manifesta inadempienza lavorativa, chiama la mamma al telefono, che è sempre meglio sincerarsi di come abbia passato la notte. Tutte indossano un camice immacolato, pur non avendo necessità alcuna di qualsivoglia dispositivo di protezione individuale. Così, per darsi un tono ospedaliero. E in effetti ce l’hanno.
E ci sono i pazienti, in arrendevole attesa delle rispettive prestazioni. Chi aspetta l’holter, chi la visita dello pneuomologo senza nemmeno saperne bene pronunciare il nome, che la pi e le enne per legge non dovrebbero stare vicine, mai. I vecchi, specie se sono soli, chiedono informazioni, valanghe di informazioni, fermano chiunque. I giovani e i parvenu digitali di mezza età vergano i loro touchscreen all’unico scopo di annegare quel fastidioso senso di impazienza generato dall’attesa.
In mezzo al corridoio principale ci sta quella signora con indosso un anacronistico camice celestino pallido con la martingala dietro, stirato alla perfezione e ai piedi ciabatte ortopediche. Il suo lavoro è stare davanti alla macchinetta erogatrice di numeri nei pressi degli sportelli che mescolano accettazioni, prenotazioni, prelievi. Sta lì, sorride dimesso, schiaccia A oppure E a seconda di quel che le dicono gli utenti. Chissà cosa farà più tardi, dopo le dodici, quando gli sportelli saranno chiusi.
Sono stata rimbalzata tra il centro prelievi, la spirometria, la visita ortottica e una visita generale. Mi sono sentita per varie ragioni su uno di quei banchi di stiramento medievali, dove ti torturavano tirandoti le braccia dopo averti legato i piedi. Ditemi voi se si può uscire emotivamente indenni da un filotto di visite in cui, in stretto ordine cronologico di apparizione: i) un tecnico spirometrista mi incita come un allenatore a bordo ring e alla fine loda una mia straordinaria prestazione con una capacità polmonare al 110% di quella presunta sulla base di età, altezza e peso (complice l’iperossigenazione dovuta alla spirometria stessa, sono stata investita da un’inspiegabile euforia intorno alla possenza dei miei alveoli polmonari, manco avessi i 12 litri di Rosolino ai tempi d’oro); ii) un’infermiera ortottista mi chiede con noncuranza se le mie lenti sono multifocali (veramente, signora, la soglia comune in cui si genera la presbiopia è 40-45 anni e nella peggiore delle ipotesi ho comunque ancora cinque anni di buono); iii) un giovane medico idiota viola le convenzionali leggi della prossemica e fa il lumacone con la sottoscritta. Passi il “tu” tra medico e paziente alla prima volta che ci incontriamo; passi (anche se no, ripensandoci, questa non passa proprio) l’invito a togliermi la maglietta per l’auscultazione cardiopolmonare; passi i vezzeggiativi dedicati ai miei organi interni (“il tuo cuoricino batte a dovere”). Però, caro il mio unto fedifrago del giuramento di Ippocrate, che tu alla voce “Consumo di sostanze psicotrope” alzi il tuo sguardo seducente come una triglia al cartoccio e mi chieda con voce pornosoft “Stupiscimi”, mi pare francamente troppo.
Testo di Chiara Bertora già pubblicato sul suo blog il 23 giugno 2015
Illustrazione di Arianna Farricella
Progetto Me too
Quando il massimo garante della nostra salute, il medico, si trasforma in qualcuno che vuole qualcosa da noi, se non gliela concediamo possiamo temere che usi il suo potere contro di noi per ritorsione e possiamo avere il dubbio che non ci vorrà più curare o farlo bene. Come sempre nelle situazioni in cui ci sono posizioni di potere asimmetriche la molestia ha più probabilità di comparire.
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Grazie Tratto, di avermi coinvolta!
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Stupirlo con una denuncia ai superiori sarebbe stato bello, ma a parte che avrebbe potuto tranquillamente negare la cosa, molti non ci trovano proprio nulla di grave nell’accaduto… “Suvvia, le stava facendo solo un complimento…” Io a direi il vero sopporto poco anche il Tu tra medico e paziente, a meno ché non sia reciproco. Il problema sta sempre nella disparità di posizione.
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Non ho avuto la prontezza di comprendere subito che mi stava mettendo a disagio e ho poi elaborato successivamente la consapevolezza che ha oltrepassato (seppur blandamente) una linea di confine di correttezza professionale; non ho letto il nome sul cartellino e, al momento, avevo desiderio solo di andarmene
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Capisco benissimo. Allontanarsi è il primo impulso di autodifesa
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Quello che a me fa più riflettere, invece, è proprio il fatto che non possa essere accettabile l’invito a togliere la maglia per un’auscultazione, cosa che, se fatta con rispetto, va a ovvio beneficio della praticità e non dovrebbe certo portare con sè malessere. La stessa richiesta, a sessi invertiti, non crea ovviamente la stessa ambiguità (che poi è ciò che genera il disappunto e la violenza di uno spazio di riservatezza), e questo è altrettanto grave. In altre parole, per spiegarmi meglio con un paragone: non è il solo fatto d’essere ginecologo (uomo) che genera la molestia nei confronti di una paziente senza vestiti di fronte a lui.
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Scusa Ammennicoli, ma non ho capito
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effettivamente sono stato un po’ criptico. intendevo dire che il problema non dovrebbe essere la nudità, ma lo rende tale la malizia. non trovo niente di male nel chiedere a un/una paziente (M o F che sia) di togliere la maglietta per l’auscultazione, al contrario dovrebbe essere la “normalità” perché non c’è alcun messaggio diverso dalla finalità medica. per tale ragione, dicevo, il medesimo messaggio da medico F a paziente M non genera alcun tipo di probelma, solitamente. così come la nudità è normale in altri contesti: se una donna va dal ginecologo o dal senologo e deve fare delle eco, o se un uomo va dall’urologo e deve far controllare la prostata, la nudità (con tutto il disagio che pur può provocare in quanto tale, per carità, ci mancherebbe) in quel caso è necessaria per la pratica clinica.
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Certo che dovrebbe essere la normalità, ma non lo è quando l’invito viene fatto con malizia. Nel racconto non ci viene detto, ma visto il seguito lo possiamo presumere. A onor del vero nessun medico mi ha mai chiesto di togliermi la maglia per auscultarmi. Anzi, semmai è successo che io stessi per toglierla e mi è stato detto che bastava sollevarla
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Sì, intendevo questo
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sul “cuoricino” invece concordo con ML nel commento qui sotto: fuori luogo è un eufemismo.
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Infatti non è la richiesta ad essere stata fuori luogo, ma la modalità con cui è stata fatta
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Lui forse voleva fare solo lo splendido, oppure voleva sperimentare un modo più friendly di visitare una paziente che gli era simpatica ‘a pelle’… trasmettendo però parecchio disgusto… sinceramente
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Può essere così, in effetti… voleva fare il simpatico con una presunta coetanea
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👍
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Uno schifoso bastardo. tanto per sintetizzare il mio pensiero “a pelle”. Non mi si venga a dire che uno non si rende conto delle perplessità che certi comportamenti comportano. Lo sa, lo sa bene, sia che sia il decelebrato che dimostra di essere, sia che non lo sia e stia solo giocando a “fare” il decelebrato.
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Sai che soddisfazione stupirlo con uno schiaffo in piena faccia? ah come mi prudono le mani!
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Beh, una chiacchierata in direzione sanitaria ci poteva stare. Non ne avresti raccolto nulla, la tua sola parola, certo, ma se le segnalazioni si ripetono nei confronti dello stesso medico, il fatto conta. Solitamente i direttori sanitari i tengono a non avere problemi e, nell’ambiente, poco o tanto, si conoscono i colleghi.
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fino alla maglietta ci poteva stare, ma “il tuo cuoricino” no dai, roba da ridergli in faccia tanto è imbecille.
ben raccontato.
ml
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