Romolo (771-716 a.C.)

Romolo era caduto sul polso sinistro. Non sentì subito dolore, era troppo stupefatto della buona riuscita dell’impresa.
Poi, ecco, all’improvviso, la fitta lancinante gli percorse il braccio fino a rintanarsi saldamente nella testa, dove prese a pulsare tanto forte da fratturare perfino i suoi pensieri.
Tra le nebbie dello smarrimento fecero la loro comparsa le gambe di una donna.
Dal suo angolo di visuale sul marciapiede poteva distinguere bene le caviglie, le ginocchia, e parte delle cosce. Si muoveva in fretta, andava verso di lui.
Tutto era di nuovo come una volta. Perfino il polso dolente, che ora tratteneva con l’altra mano, aveva ripreso un significato concreto. Il polso, che tante volte aveva sorretto lo scudo in battaglia, per secoli era rimasto solo il concetto di un polso, e quelle mani scorticate e sporche che avevano attutito il colpo (riuscì a guardarsele in un battito di ciglia), erano tali e quali a come furono scorticate e sporche negli anni di vita rude negli accampamenti e in pugna, quando le mura di Roma erano pali infissi a fondo nel terreno e l’unica acqua buona per lavarsi veniva portata dalle ancelle a orari cadenzati, solo in tempo di pace, e quindi quasi mai.
E c’era, non riusciva a crederci, una gioia improvvisa che a stento tratteneva tra le gambe di cui non provò vergogna, quando la sconosciuta si accovacciò accanto a lui e sporse il viso per guardarlo bene.
“Si è fatto male? Come si sente? Oddio, avrà battuto la testa. Mhmm”. Rovistò nella borsetta posata sulle ginocchia. Tirò fuori un pacchetto di kleenex, come per attestare di non aver perso tempo invano.
“Adesso resti fermo qui che vado a chiamare aiuto. Sa, ho il cellulare scarico”.
La voce della donna era tanto affannata quanto calma appariva quella del semidio.
“Carini, quei calzari”.
Romolo tenne sospeso tra le dita il fazzoletto ricevuto dalla mano tremante, senza mai staccare gli occhi da quelli di lei, che invece corsero lungo la sua figura nuda e raggomitolata in terra, per memorizzare il maggior numero di dettagli da riferire ai soccorritori. All’altezza dell’inguine le si mozzò il fiato, si sbilanciò all’indietro incespicando con i tacchi, ma si riprese. Spiccò un saltello in alto, col cuore che le martellava in gola, e corse via dal minaccioso scettro, lontano, verso la pensilina della Stazione Termini.
Fu in quel momento che due coppie di braccia virili lo afferrarono saldamente, sollevandolo come un peso morto.
“Priapo impenitente, non ti smentisci mai!”
A quella voce Romolo attribuì subito un nome.
“Numa, mio degno quanto differente epigono! E io che non riuscivo a crederti, quando dicevi che gli altri della settina reale stavano, alfine, a uno a uno, tornando verso Roma. Ho fatto il salto anch’io, hai visto? Dopo che tu sparisti all’interno della nube ascosa che avevi detto essere l’unica via d’uscita dal maledetto Limbo”.
“Taci, stavolta sei arrivato ultimo”.
“Chi si rivolge a me con tanta sfrontatezza? Chi è che mi sostiene per le ascelle?”
“Tullo Ostilio, o caro. Ma devo ingiungerti ancora di tacere, adesso. Sei messo male e ci serve un nascondiglio. Sta per raggiungerci Anco, ti porta dei vestiti”.
“Vestiti come quelli che vedo indosso a te, Numa Pompilio?” Il vecchio Re che strattonava Romolo, tirandone i polpacci, non si scompose affatto. Acuì invece la vista, in cerca dell’obiettivo, mentre schivava, d’intuito nonché di schiena, la sopraggiunta dei bolidi che Tullo gli indicava con il naso.
In vista delle terme di Diocleziano, ficcarono il redivivo Re in un sacco a pelo, lasciandolo dormire come un bimbo, addosso a un vecchio muro.
Si sedettero nei paraggi, sul ciglio di un cespuglio di oleandri. Stettero lì in attesa, confusi tra i bivacchi dei senzatetto, con la regalità mistificata da sandali logori e vecchie tute in acetato. Presero a morsi alcune mele dure e arcigne e sorseggiarono dai cartoni del cattivo vino, di tanto in tanto scambiando una battuta sui culi delle Naiadi.
Intanto, per la prima volta dopo 2͘͘˙733 anni, Romolo si concesse il lusso di sognare.
Dietro le palpebre si svolse all’incontrario tutta la sua esistenza, partendo dalla fine, di cui avvertì dapprima sulla pelle le tracce di ferro e fuoco del mese di Quintile. Quando si accorse che i Patrizi avrebbero profanato le sue sacre membra, era già troppo tardi.
Quella volta la rabbia era sfumata in inconsistenza mentre adesso si vide pestare i piedi per l’affronto. Trovò sé stesso, armato di tutto punto, fronteggiare un giovane prestante e in armi, col volto acceso d’ira quanto il suo. Pareva il suo gemello. Forse era proprio Remo, tornato anche lui dall’Ade a chiedere conto dell’affronto del solco rubato, nonché del fratricidio, lì a sfidarlo?
No, non lo era.
Si riconobbe, avvolto nel mantello di porpora sulla preziosa toga, attorniato da Celeri petulanti, tronfio e gonfio d’orgoglio. E riconobbe sul viso la maschera di vanità che lo aveva portato a tanto ingrata fine.
Cadde in ginocchio, e quindi steso prono, la faccia conficcata nella terra. Iniziò a piangere senza speranza di conforto, con singhiozzi lunghi e disperati.
Ma non per molto.
Gli parve di udire una voce, o almeno trenta, che dolcemente chiamavano il suo nome. Alzò di nuovo il capo e vide Lupa, sua madre, la grande prostituta, e le Sabine, in cerchio attorno a lui. Nessuna traccia di battaglia, si udivano soltanto i sospiri delle donne e, in lontananza, il gioco dei bambini.
Gli si strinsero sempre di più contro.
Romolo, ancora a terra, distinse con sempre maggior nitidezza le belle caviglie e i polpacci che, tra l’ondeggiare delle tunichette, andavano a restringere il cerchio azzurro del cielo. Adesso si chinavano, si accosciavano, aprivano le borsette, estraevano i cellulari, li portavano alle bocche.
Perfino lui stava tenendosi un telefono stretto contro l’orecchio. Avrebbe voluto toccarle, infilare la mano libera nella foresta di gambe scoperte che gli si parava davanti, ma era la sinistra. Soffriva di un dolore intollerabile ogni volta che tentava di insinuarla nel mezzo. Le voci gli parlavano all’unisono: “Romolo… Noi eravamo libere, tu ci hai ridotte schiave”, veniva rimproverato.
Il dolore si estese rapidamente a tutto il corpo, credeva che sarebbe stato nuovamente ucciso, stavolta per soffocamento da lamenti e dalla tumefazione urlante che si era impossessata di lui. Finché udì di nuovo la voce della Lupa.
“Andate tutte via! Ciascuna ai suoi bambini. Questo è mio!”, gridò contro di loro, scatenando l’isteria di un fuggi-fuggi.
Quindi si prese Romolo tra le braccia, coprendolo di baci. Pulì via le lacrime e il fango con i suoi folti capelli e, mentre lo consolava a parole, magnificandolo come fondatore della Città Eterna, enumerando le vittorie sui campi di battaglia, le geniali riforme, l’accoglimento dei nemici assoggettati come cittadini dell’Urbe, con agilità consumata fece scendere al di sotto delle spalle stola e subùcula, scansò la fascia mamillare e prese ad allattarlo.
Romolo, partorito in Alba Longa dal ventre di Rea Silvia, fecondato nientemeno che da Marte Ultore, succhiò avidamente, dimentico di tutto. Venendo risucchiato a propria volta all’interno di un lungo, umido, stretto e oscuro oblio.
[Continua]


“I 7 re di Roma” : testi di Francesca Perinelli
Illustrazioni di Davide Lorenzon CRT2
Progetto I magnifici 7