Mio nonno tradiva mia nonna. Ancora non andavo a scuola che già lo avevo scoperto ed era un fardello pesante da portare a cinque anni. Non che sapessi esattamente il significato di quel tradire, ma sentivo parlare i grandi e sapevo che a volte gli uomini le facevano quelle cose lì e le donne poi piangevano molto e litigavano e a volte li affrontavano anche i mariti, facendo scenate, ma poi perdonavano o sopportavano perché gli volevano bene, perché c’erano i figli e perché poi “dove vuoi che vada se lo lascio?!” Incredibili le cose che si dicono davanti ai bambini pensando che non capiscano. E invece li capivo, anzi, peggio, capivo quello che la mia limitata esperienza di vita mi permetteva di capire, quindi travisavo, ingigantivo, deformavo fino a costruirmi una mia verità che spesso era peggio della realtà. Comunque ero certo che il nonno tradisse la nonna, anche se lei non l’avevo mai vista piangere a essere sincero, ma era dura come la roccia la nonna e nemmeno quando si pungeva con l’ago piangeva, mentre confezionava pile di maglie tutto il giorno e allora pensavo che la tragedia fosse la puntura d’ago e non il lavoro a cottimo che la curvava sulla sedia e le toglieva la vista e le bastava giusto per pagare l’affitto. Comunque sia, la nonna non dava segni di sofferenza e mi ci ero messo d’impegno ad osservare sintomi che non scorgevo. Eppure ne ero certo: il nonno la tradiva nascostamente. Ogni giovedì pomeriggio aspettava che la nonna uscisse per andare a stirare a casa della signora del quinto piano e con la scusa che doveva badare a me, lui si chiudeva in casa e mi faceva stringere un patto di omertà. Prendeva il telefono Sip, quello grigio con la rotella dei numeri, e dal corridoio lo tirava dentro la camera da letto, sfruttando tutto il filo che dalla presa tracciava così la linea della sua colpa e che era sufficiente per arrivare poco oltre la soglia. Chiusa la porta lo vedevo attraverso il vetro smerigliato sollevare il ricevitore e con la chitarra che nascondeva nell’armadio, improvvisava un serenata a qualcuna dall’altra parte del telefono. Da principio erano suoni strani, stridii, stonature, pizzicar di corde, rumori quasi, poi si facevano più certi, più audaci e diventavano accordi, melodia e infine canzoni sempre bisbigliate “che non ci facciamo sentire” mi diceva poi nonno strizzandomi l’occhiolino quando rimetteva a posto il telefono sul mobile del corridoio, in un atto di complicità che lungi dal rassicurarmi, amplificava il mio disagio e creava un astio inconfessabile nei suoi confronti.

Quando la nonna rientrava si metteva a preparare la cena ignara di tutto e io, che di solito le stavo tra le gambe come un pulcino alla chioccia annusando gli odori della cucina e della sua gonna, stampando per sempre la traccia olfattiva della mia infanzia, mi sentivo indegno di avvicinarmi a lei, e me ne stavo in un angolo della cucina fingendo di leggere i miei fumetti, ma in realtà attento ad ogni suo cambio d’umore che ne svelasse la sofferenza o la furia nella scoperta dell’inganno. Ritenevo la mia complicità così grave che temevo in un allontanamento immediato, che nonna si rifiutasse per sempre di tenermi in casa durante le ore di lavoro dei miei genitori o che, peggio ancora, raccontasse loro la mia colpa e venissi bandito per sempre dalla famiglia. Quei giovedì per me erano pomeriggi di angoscia che nonna ben vedeva dipinta sul mio viso, ma attribuiva a un’ipotetica difficoltà al distacco da lei: “che in fin dei conti vado solo un’ora dalla vicina e quando dovrà andare a scuola come farà questa creatura?” diceva a mia madre.

L’inizio delle elementari segnò una svolta nella mia vita e la casa dei nonni da rifugio sicuro divenne solo meta di pranzi domenicali, di visite sporadiche o brevi pernotti per eventi speciali come un cinema dei miei genitori. La mia vita sociale si intensificò arricchendosi di attività sportive e compleanni e gite e presto dimenticai quei giovedì pomeriggio di tradimenti telefonici e serenate e fu solo molti anni dopo, ritrovando la chitarra del nonno, che finalmente venni a capo di tutta la faccenda, riesumando ricordi di eventi ed emozioni aggrovigliati così nel profondo da sciogliermi in lacrime e singhiozzi. Quando mamma raccontò di come il nonno accordasse la chitarra usando il LA prodotto dal tu tu tu del telefono e di come dovesse farlo di nascosto da nonna che lo aveva strappato da una vita da scapolo dedito alle donne, nelle balere in cui suonava con un’orchestra di amici, proibendogli per gelosia di suonare la chitarra, mi sentii sbucciare degli strati di sicurezze ed esperienze e forza che la vita mi aveva messo addosso e ritrovai le angosce del bambino di allora, sciogliendole. Feci pace col nonno, non più colpevole, con la nonna, non più vittima, ma soprattutto con me stesso, non più complice.


“7 Note” : testi di Katia Mazzoni
Fotografie di Filippo Maria Fabbri
Progetto I magnifici 7