Esiste un luogo comune che vuole che i ragazzi molto intelligenti debbano essere molto bravi a scuola.

E se così non fosse? E se invece questi bambini plusdotati, a scuola si annoiassero tanto da perdere interesse per lo studio? E se i loro compagni li considerassero dei “diversi” e per questo li escludessero, se non addirittura bullizzassero? E se persino le insegnanti non sapessero riconoscerne il talento e il potenziale, contribuendo a ingigantire i loro problemi e a spegnere i loro talenti?

Eppure la prima Relazione su questo argomento è stata pubblicata negli USA nel 1972; eppure è dal 1987 che l’UE ha un European Council for High Ability (ECHA); eppure in Italia ancora non ci sono leggi su questa materia a favore degli studenti gifted and talented.

Anche in questo campo l’Italia si distingue per lo spreco delle sue risorse, con grande spargimento di fatica e dolore per quei bambini e le loro famiglie.

La plusdotazione è quel bagaglio di capacità cognitive con le quali un bambino nasce. Il termine inglese – molto più evocativo di quello italiano – è gifted, cioè portatore di doni. Bambini che nascono con dei doni, dei talenti, ragazzi di talento, ragazzi ad alto potenziale. Possono nascere in famiglie ricche e colte così come in famiglie povere e ignoranti, infatti il loro talento sta nel loro dna. Il contesto sociale può tuttavia fare la differenza durante lo sviluppo, soprattutto quando la scuola non è pronta a comprenderli e non fa il suo dovere.

Questo libro, pubblicato nel marzo 2017 da Imprimatur, raccoglie le testimonianze delle famiglie che fanno parte dell’associazione nazionale Step-net onlus, nata nel 2011 per dare supporto alle famiglie e alle scuole nonché per portare il tema della plusdotazione all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni.

Dall’introduzione del libro: “Ma chi sono? Bambini prodigio? Geni? Bambini e ragazzi dalle prestazioni incredibili di cui spesso leggiamo sui giornali e nelle riviste di gossip? Le loro famiglie li spingono affinché mostrino tutto il loro talento e potenziale? Fenomeni da baraccone messi in vetrina da genitori esaltati? Piccoli Mozart, Einstein o Marie Curie? Niente di tutto questo. La plusdotazione è una complessa costellazione di caratteristiche personali e comportamentali che si esprimono in modi differenti. Essere plusdotati non significa avere lo stesso carattere, lo stesso temperamento, gli stessi interessi o abilità.

In Italia i bambini e i ragazzi plusdotati sono invisibili; spesso, infatti non vengono riconosciuti.

Diventano a volte vittime di diagnosi sbagliate. Sono a rischio di sottorendimento e abbandono scolastico, perdita di autostima e isolamento sociale, fino alle estreme conseguenze (depressione, alcolismo, dipendenza da droghe e comportamento antisociale).

In questi anni tante famiglie si sono rivolte a Step-net, raccontandosi e aprendosi: difficoltà, gioia, stupore, incredulità, stanchezza, fallimenti, vittorie, sconfitta, vergogna, solitudine. Tanti, troppi, sono i falsi miti che circondano i bambini gifted e le loro famiglie; l’associazione si è impegnata a sfatarli, perché i bambini e i ragazzi gifted non sono geni, non sono fenomeni, sono anzitutto bambini e ragazzi. Farfalle di cristallo, tanto intelligenti quanto sensibili, fragili e spesso non capiti. Queste le ragioni che hanno spinto l’associazione a redigere delle linee guida per una legge che riconosca, anche in Italia, la plusdotazione.

Il più delle volte i genitori si trovano impreparati a comprende e trovare le modalità giuste per crescere un bambino o un ragazzo gifted e, una volta colti particolari segnali, si sentono persi perché non sanno a chi chiedere aiuto, conferme, consigli. Quasi sempre provano un forte senso di vergogna, nascondono se stessi e i propri figli anche ai parenti più prossimi, per paura di essere giudicati; temono i pregiudizi, credono di essere identificati con quei genitori pieni di aspettative, che spingono sulle performance dei propri figli. Hanno paura di esporli al dileggio, invidie, incomprensioni, emarginazione. Non vogliono che i propri figli vengano plus-valutati, e nemmeno li plus-valutano; vorrebbero solo che fossero accettati per quello che sono, perché possano stare bene e crescere come persone complete.

I racconti contenuti in questo libro sono ispirati a storie vere…

Storie più o meno come queste:

Sono uno stupido a cui vogliono bene. Ho quattordici anni e non riesco a concludere nulla. Vivo con mio padre e ho una sorella più piccola. I miei genitori si sono separati anni fa: mia madre la vedo raramente perché è andata ad abitare a Parigi. Ogni giorno mi alzo, mi vesto, esco di casa e salgo su un treno che mi porta in città, dove frequento la terza media. Dovrei usare il verbo al condizionale, frequenterei dovrei dire. Perché? Ultimamente scendo dal treno e osservo il fiume di folla che mi scorre accanto e, a passo veloce, va in ogni direzione per raggiungere il proprio posto di lavoro. Spesso mi soffermo e mi chiedo il motivo per cui anch’io dovrei affrettarmi per raggiungere il mio posto di lavoro, la scuola. Ho perso ogni interesse nell’entrare in classe, sedermi su quella sedia e far passare cinque ore ad annullarmi in attesa che suoni la campanella di fine lezione. Proprio non ci riesco. Stare seduto al mio banco, con un compagno a destra, uno a sinistra e l’altro dietro di me. Ad ascoltare per ore in silenzio le spiegazioni. Ad ascoltare in silenzio le ripetizioni. A fare l’analisi del periodo di pagine intere. Gli insegnanti si susseguono: disegno, tecnologia, matematica, italiano. Che strano. Io adoro scrivere storie, leggere e volare con la fantasia: navigare insieme a Ulisse, accompagnare Dante o combattere al fianco di Napoleone. Ho letto l’edizione integrale della Divina Commedia. Mi è piaciuta molto. Ho provato a fare delle domande al docente di italiano ma lui continua a rispondermi che non è in programma. Poi qualcosa cambia. Tocca a me essere interrogato. E faccio scena muta. L’insegnante incalza, credo non mi veda di buon occhio. L’ha detto anche a mio padre durante l’ultimo colloquio: “Suo figlio è svogliato, non ci mette impegno, ha delle carenze linguistiche e in classe non partecipa, è continuamente distratto.” In questi giorni si sono aperte le iscrizioni per le superiori. In base ai voti e al rendimento scolastico mi è stato suggerito un percorso di studio triennale. Il mio sogno sarebbe di diventare un giornalista, fare il liceo classico e poi Lettere. Ma nessuno crede che io ce la possa fare. Solo mio padre crede ancora in me. Io sono plusdotato. L’abbiamo spiegato anche agli insegnanti, abbiamo portato la certificazione di plusdotazione a scuola, ma i docenti, di fronte a me, continuano a non crederci, entrano in classe e mi dicono: “Cos’ha fatto oggi il genio?” Ultimamente non sto più andando a scuola. Scendo dal treno e vado dalla parte opposta a quella rispetto alla quale dovrei. Respiro l’aria di stagione, sento le voci degli ambulanti al mercato, vedo le persone dai variegati colori che parlano e camminano. Il mondo, seduto al mio banco, visto attraverso una finestra del pianterreno, è grigio e spento. Il mondo che avverto quando non vado a scuola invece è vivace e mi fa sentire vero, mi stimola, mi dà la voglia di fare, di correre, di urlare.

***

Ci siete voi e il vostro bambino. Lui, o lei, è stupendo, non avete mai visto niente di tanto bello, non siete mai stati così innamorati. A due anni già compone le prime frasi e, figlio unico, si inventa un lessico semplificato da adolescente: “Mamma, mi metti sul fascia? (fasciatoio) Mi dai della mozza? (mozzarella)” nonostante sappia pronunciare benissimo il nome completo di quegli oggetti e facendo inorridire la purista che è in voi. A quattro anni conosce i numeri relativi e vi annuncia di aver scoperto qual è il numero che sta esattamente a metà: “Lo zero, perché da una parte ci sono i numeri positivi all’infinito e dall’altra i numeri negativi all’infinito”. Voi avete risposto alle sue domande su come si è formato l’universo e cosa ci sia dopo l’infinito. Lui non vuole mangiare certe cose e vi spiega che non lo potete forzare perché il corpo è suo. Dio e la religione sono misteri irrisolvibili sui quali riflette rispettando il vostro ateismo. In libreria vuole comprare solo enciclopedie e atlanti, si preoccupa dei motivi che hanno portato all’estinzione di alcune specie di animali e cerca soluzioni ecologiste per evitare che altre ancora si estinguano. Il pianeta terra lo appassiona nelle sue mirabolanti differenze e bellezze e cosa mai avrà prodotto i confini? Ricompone i piccoli bisticci con vostro marito proponendo delicate soluzioni di compromesso e nel frattempo compie sei anni. Entra alla scuola elementare. Voi sperate che anche le sue maestre si innamorino di lui, come le maestre del nido prima e della materna poi. Pensate anche che, vista la sua grande curiosità per il mondo, la scuola non potrà che essere l’appagamento della sua e della vostra felicità. Invece, con vostro grande stupore, al primo colloquio le insegnanti vi dicono che è sempre distratto. C’è però qualcosa che stupisce anche loro: nonostante la sua distrazione, ogni volta scoprono che ha capito tutto quel che hanno spiegato. Vi dicono anche che il vostro bambino non sa giocare con gli altri (con buona pace di tutti gli amichetti che si è fatto nel corso dei precedenti anni di scuola materna). Sospettano che voi lo teniate sotto una campana di vetro e non gli facciate incontrare altri bambini. Guardandovi con un’espressione di pietà vi suggeriscono di invitarne a casa almeno nel week-end. A voi risulta che vostro figlio sia molto socievole, amato dalla fidanzatina e dai suoi amici, che frequenta regolamente a casa e al parco, vivace senza essere aggressivo, assertivo senza essere prepotente. Perciò trasecolate. Tuttavia ascoltate il parere delle maestre senza contrapporvi ma cercando di raccontare, timidamente, anche l’altra faccia di vostro figlio. Promettete che parlerete con lui per cercare di capire che cosa stia succedendo. Dopo qualche mese il bimbo accusa disturbi alla visione, vede le cose storte, lampeggianti, lucine vagano davanti ai suoi occhi, le linee sono ricurve. Terrorizzata correte a farlo controllare ma dopo una visita oculistica, una ortottica, un elettroencefalogramma e una risonanza magnetica, risulta che il bambino è sanissimo. I neurologi non si sanno spiegare cosa sia stato a provocare quei sintomi, nel frattempo scomparsi. Ipotizzano che possa essersi trattato di stress scolastico, perciò vi propongono un percorso psicologico. Siccome il vostro bimbo ha solo sei anni il percorso si articola in due incontri con i soli genitori (il primo e l’ultimo), più tre incontri del bambino da solo con il team che lo segue, durante i quali, oltre al resto, gli vengono anche sottoposti test cognitivi (Matrici di Raven, Test TCM – delle campanelle modificato, Test CAS – cognitive assessment system… e altri che poi dimenticate) allo scopo di verificare le sue capacità e la presenza di eventuali disturbi (dislessia ecc.). Niente. Anche la psicologa vi dice che è perfettamente sano. Non solo è un bimbo solare e sereno ma, vi rassicura, è molto intelligente. Anzi afferma che sia un piccolo genio. Vi spiega che è questo il motivo che lo porta a distrarsi: lui capisce la lezione alla prima spiegazione, le maestre però la ripetono anche sei, sette volte perché sanno che ci sono bambini che hanno bisogno di tanto. Quindi lui si annoia, perciò si distrae ed ecco che le maestre si lamentano. Voi incassate tutto questo con il sollievo di sapere il vostro bimbo in salute e senza problemi. Per un attimo vi sfiora l’idea di dirlo alle maestre che il bambino è molto intelligente (piccolo genio no, meglio non usare queste parole) ma la scartate subito, convinte che tanto non servirebbe a niente, vi classificherebbero come invasata e magari prenderebbero in antipatia il bambino. Comunque siete felici di avere un figlio capace, e vi dite che di certo i suoi problemi presto spariranno, è solo che si deve ambientare, è solo una questione di tempo.
Invece no.
Le cose peggiorano progressivamente. “Disturba perché alza sempre la mano e vuol rispondere sempre lui”. Le insegnanti continuano a dare feed-back negativi a voi e 10 in pagella a lui. I compagni di classe lo ammettono solo sporadicamente ai loro giochi. In terza arriva la goccia che fa traboccare il vaso. Un giorno vostro figlio fa un disegno: un mostro con le fauci affilate e gocciolanti sangue che dice “Viva il bullismo”. La maestra lo processa davanti a tutta la classe perché ha scritto “Viva il bullismo”. A casa, piangendo disperato, vi dice che la maestra non ha capito: lui nel suo disegno voleva mostrare che chi inneggia al bullismo è un mostro. Solo che non è riuscito a spiegarlo alla maestra, pietrificato nella posizione di imputato. Allora chiedete un colloquio urgente, che però le maestre rimandano di oltre un mese per farlo coincidere con le date che avevano già fissato per gli incontri del quadrimestre. In quell’occasione finalmente siete decise a dire tutto, spiegate bene vostro figlio, raccontando anche il risultato dei test cognitivi. Mettete le insegnanti di fronte alle loro responsabilità, dato che il loro comportamento persecutorio avalla il bullismo dei compagni. Chiedete che tutto cessi immediatamente. Chiedete che vostro figlio venga rispettato, pretendete che venga protetto. Chiedete anche che vengano date risposte adeguate alle sue particolari necessità cognitive… altrimenti ci rivolgeremo alla dirigente e se non basterà al provveditorato (detto a bassa voce e con grande riluttanza). A casa parlate anche con il bambino e insieme arrivate alla conclusione che anche lui ha delle responsabilità in quella situazione, che si può impegnare per migliorare il suo comportamento. Per esempio, quando viene provocato (riceve un calcio, viene cacciato dal gioco, viene spinto, riceve una parolaccia, ecc.) invece di reagire male, guadagnandosi in aggiunta anche il rimprovero delle insegnanti – che sgridano lui e non il provocatore – gli suggerite di usare la PAROLA, cioè chiedere spiegazioni, cercare una mediazione e, in caso di mancate scuse o ragioni, chiedere giustizia alle maestre.
Siete orgogliose di lui: a soli otto anni il vostro bambino è capace di fare ciò che spesso non riesce neanche agli adulti più maturi e motivati: corregge il suo comportamento.
Le cose migliorano. Le insegnanti si impegnano e coinvolgono vostro figlio durante le lezioni, smettono di vessarlo, essendo così, implicitamente, di buon esempio per i compagni di classe, che smettono di emarginarlo. Vi complimentate con voi stessa per essere intervenuta a proteggere vostro figlio e, allo stesso tempo, non vi perdonate di avere aspettato tanto. Ma non smettete di chiedervi perché abbiate dovuto fare tutto voi? Perché vostro figlio abbia dovuto soffrire inutilmente? Perché un’istituzione come la scuola, che per vocazione si dovrebbe occupare proprio di tematiche cognitive, non sappia nulla di plusdotazione?