Ritratti-di-guerraÁngel de la Calle (1958) torna, dopo la graphic novel su Tina Modotti – di cui ho scritto qui – a proporci un altro romanzo sull’anima sudamericana. Questa volta siamo nel Cile e nell’Argentina degli anni settanta, quando Pinochet e Videla stravolsero la vita civile di quei due paesi instaurando un regime militare e dando il via agli orrori che oggi tutti conosciamo: torture, uccisioni, voli della morte, desaparecidos…

Le dittature soffocarono nel sangue la vita democratica, ogni movimento di cambiamento sociale, ogni ribellione. Chi potè fuggì, rifugiandosi all’estero, in un esilio volontario e spesso clandestino, sradicati e reietti, abbandonati e senza più punti di riferimento, soli con le proprie anime morte.

La storia si svolge a Parigi, all’inizio degli anni Ottanta. È lì che si intrecciano le vicende dei vari personaggi, è nelle sue strade, dentro i suoi caffè che pittori esuli, scrittori e intellettuali parigini si incontreranno, berranno, parleranno, tenteranno di far sentire la loro voce, di esprimere la loro idea di libertà e bellezza, il loro dolore, la loro protesta.

In mezzo al gruppo dei protagonisti appare uno scrittore spagnolo. Non è un esule, è l’alter ego dell’autore e si chiama proprio Ángel de la Calle, in italiano “angelo della strada”, un nome davvero improbabile, come dice nella prefazione del libro il suo caro amico Paco Ignacio Taibo II. La presenza dello scrittore spagnolo fa da contraltare alle parole degli artisti e degli intellettuali, impegnati in concetti filosofici e teorie politico-sociali. Lui non ha mai sentito parlare di Internazionale situazionista ma sa tradurre anche le iperboli di un Guy Debord, ipotetico anfitrione parigino, che guida la compagnia nelle sue “derive” notturne.

Ritratti-di-guerra_Deriva

Gli autorealisti – effimero movimento pittorico, scappati dal Cile di Pinochet, sopravvissuti alle torture “sono passati per l’Ade e ne sono usciti vivi” – vedono nell’autoritratto ripetuto ossessivamente e divulgato, la possibilità di testimoniare la loro esistenza, la loro resistenza e appartenenza: “Lo sguardo dell’autoritratto è la memoria della barbarie infinita… della barbarie contemporanea.” “Per due soli mesi, tra il 1981 e il 1982, inondarono alcuni quartieri di Parigi con manifesti e fotocopie dei loro autoritratti; solo due o tre azioni in locali marginali. Poi il silenzio.”
“Vogliono unire avanguardia artistica e avanguardia politica, sono un po’ guerrilleros e un po’ pittori. Internazionalisti latinoamericani affascinati dal moderno. Il problema è che tutto ciò che è moderno si dissolve nell’aria.”

Invece lo spagnolo Ángel è approdato a Parigi per scrivere un libro su Jean Seberg, attrice americana, protagonista del famoso primo film di Godard, Fino all’ultimo respiro, morta nel 1979 proprio nella capitale francese. Suicidio secondo la versione ufficiale; in circostanze misteriose secondo le voci che sostengono fosse pedinata e controllata dall’FBI.

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Agenti segreti infiltrano il gruppo e diversi incidenti sospetti e sparizioni punteggiano la storia: un uomo morto nella Senna senza impronte e troppo decomposto per essere identificato; un suicidio dalla finestra di uno studio di pittura; nessuno sa dove sia Marga, pittrice autorealista di cui si è innamorato lo spagnolo, tanto bella da farci pensare a un omaggio a Crepax.

Ritratti-di-guerra_Marga

Dalla prefazione al libro scritta da Paco Ignacio Taibo II: “Non ci sono contesti da offrire, perché il libro stesso è il contesto. Non ci sono influenze da spiegare, perché questo libro strizza l’occhio di continuo e saprà trasportarvi fino al Pont Neuf della Parigi di Cortázar, saprà indurvi a leggere La svastica sul sole di Philip Dick e a rivedere Fino all’ultimo respiro, o a chiedervi dove siano finiti nelle vostre biblioteche i manifesti di Guy Debord. […] Come definire questo libro? Si tratta di storie della Storia. Sono storie assolutamente sconosciute che compongono il panorama di una tragedia orribile (e la parola orribile dovrebbe essere letta con la maiuscola e ripetuta all’infinito), sono l’epica di una generazione di pittori che attraversa tutte le nazioni dell’America Latina. Gli anni Sessanta e Settanta, sono gli anni della rivoluzione e dei sanguinosi golpe militari, dei dibattiti sull’avanguardia estetica, degli esili asfissianti, e tutto confluisce in un solo punto: Parigi. […] Più mi addentro in Ritratti di guerra, più mi ritrovo immerso nella complessità di un’epoca, avverto echi di vecchie discussioni, comincio a vedere volti e sento dibattiti ormai dimenticati. Bisogna ringraziare Ángel anche per i suoi paesaggi urbani, la ricreazione continua di quadri, foto, murales, il suo amore per i dettagli, il suo talento letterario di saper concentrare la storia in una vecchia scarpa perduta…”

Sono serviti dieci anni per portare a termine quest’opera complessa e ricchissima. Nel frattempo Ángel de la Calle ha continuato la sua attività nel campo dell’illustrazione, della grafica e della pubblicità, e a dirigere la Semana Negra di Gijón, uno dei più prestigiosi festival letterari mondiali che quest’anno compie trent’anni.

Da un’intervista del 6 giugno 2017:

Ángel de la Calle: “Ho impiegato dieci anni per completare questo libro, perché l’argomento era complesso, complicato e io volevo raccontarlo sì, ma raccontarlo bene. Tratta il tema dell’esilio, della pittura e di una generazione, proveniente dai quartieri della classe media di tutti i paesi dell’America latina, che ha cercato di prendere d’assalto il cielo. Non lo ha raggiunto ovviamente, ma ha pagato con un forte contenuto di disgrazie personali, di vite distrutte e di morte. Era questa la storia che volevo raccontare, di quello che succede dopo la lotta armata, se questa va bene oppure se va male, i suoi legami con l’arte contemporanea, che a me piace molto e che in quel momento storico aveva il suo epicentro proprio in America latina. L’immagine che ho io dell’arte contemporanea è una fotografia, che tutto il mondo conosce, di un gruppo di donne, qualcuna ha un fazzoletto sulla testa e tutte hanno una fotocopia tra le mani: il ritratto di un desaparecido che ti guarda. Per me queste fotografie che loro mostravano sono la maggior espressione dell’arte contemporanea oggi esistente, con un forte contenuto etico e morale. Perché le madri della Plaza de Mayo stavano salvando la morale di una società che l’aveva perduta, perché una società che vede scomparire 50.000 persone e non chiede niente, eticamente non è niente. Io volevo raccontare un po’ tutto questo: l’esilio, Parigi, la luminosità degli anni Sessanta e come l’arte esplose, la gioventù esplose, il cinema fu più cinema che mai, la letteratura più letteratura che mai… parlare di quegli anni.”

Ángel de la Calle: “Per caso mi sono imbattuto nella storia di tre pittori: una pittrice cilena, un pittore uruguaiano e uno argentino che erano stati montonero e tupamaro e che si incontrarono a Parigi per un paio di mesi tra il 1980 e il 1981. Erano un piccolo gruppo e si diedero il nome di autorealisti. La loro arte consisteva nel farsi autoritratti e attaccarne le fotocopie in giro per le strade di Parigi. Il loro movimento durò un paio di mesi, non fecero alcuna performance e non si sa niente di loro. Vennero nominati in un romanzo di Jean-François Vilar ma nient’altro. Mi interessava questa storia, come sono stati presi di mira, quale fu la risposta dell’arte all’Operazione Condor e com’erano le loro vite. Questi tre personaggi, una sorta di tre moschettieri, mi permisero di cominciare a tessere la trama del libro. Ma, dato che i tre moschettieri erano in quattro, ecco allora un quarto pittore, un messicano sopravvissuto al massacro di Tlatelolco, anche lui fuggito a Parigi, che interagisce con loro. È questo il filo conduttore della storia che ci trasporta in quegli anni. Ma nel libro c’è anche una parte di autofiction, un personaggio che porta il mio nome e che si reca a Parigi per scrivere la biografia dell’attrice nordamericana Jean Seberg, che fu una star di Hollywood ma che, per tutta la sua vita, fu anche un’attivista per la libertà sociale e i diritti civili negli Stati Uniti. Pagò molto caro questo impegno. Ebbe molti amanti, sposò lo scrittore francese Romain Gary, fu amante di Carlos Fuentes, di Clint Eastwood, di un dirigente delle Pantere nere, ma fu trovata morta a Parigi dentro un’auto, in circostanze quanto meno sospette. Il suo talento artistico, l’impegno politico, le relazioni sentimentali, la sua strana morte, tutti questi aspetti della sua vita fanno assomigliare molto questa sensazionale attrice a Tina Modotti e, così come io ho scritto una biografia sulla Modotti, così il mio alter ego nel libro cerca a Parigi informazioni e materiali per scrivere la biografia di questa donna.”

Ángel de la Calle: “Il mio romanzo totem è Il gioco del mondo, di Julio Cortázar. Ritratti di guerra non si struttura come il libro di Cortázar ma fa parte del gioco: il primo capitolo è ambientato in una notte del 1976 a Santiago del Cile; il secondo è Parigi agli inizi degli anni Ottanta; il terzo è la storia dei pittori latino-americani prima e dopo l’arrivo in Europa; il quarto è la biografia di Jean Seberg e il quinto è un epilogo. Questi capitoli sono intercambiabili, è questo il gioco, non importa l’ordine di lettura, io ti propongo una linea ma tu puoi cambiarla e non per questo ne saprai di più o di meno. Questa struttura mi ha permesso di raccontare una storia corale tenendo sempre il lettore avvinto alle vicende narrate.”

Ángel de la Calle: “La storia di Tina Modotti è vera, è una biografia, ciò che viene raccontato è accaduto veramente e nello scrivere e disegnare quel libro non dovevo essere realista perché tutto era vero. In Ritratti di guerra invece, anche se la storia è basata su fatti reali, si tratta di finzione e questo comporta che si debba essere molto più realisti nel mostrarla. Perciò anche lo stile deve essere diverso, meno ruvido che in Modotti e che sia facile da leggere. Ho inserito citazioni dei miei autori preferiti, c’è una pagina che tutto il mondo riconosce, è Valentina di Crepax; i dialoghi di un’altra pagina sono tratti dalla penultima pagina di Una ballata del mare salato. Non credo che l’aspetto grafico del mio libro sia un’evoluzione rispetto al libro su Tina Modotti, credo piuttosto che un’altra storia debba essere raccontata con un’altra forma, la prossima storia sarà indubbiamente con un’altro stile ancora, ma sempre mio.”

Ángel de la Calle: “Ritratti di guerra è un libro divertente, di intrattenimento, ma che invita alla riflessione e perciò politico. Perché parla di un mondo in guerra, in un momento storico in cui la politica era la cosa più importante. La storia che racconta non è avvenuta seimila anni fa, io ho intervistato, durante le ricerche per il libro, sopravvissuti della Escuela de Mecánica de la Armada e sopravvissuti di Villa Grimaldi. Sono vivi. E quelli che li torturarono, e che fecero scomparire i loro compagni, sono vivi anche loro. Sono lì, potresti incontrarli tutti i giorni per la strada. Questo non è… non so che cosa è successo… è la memoria… Quando sono andato in Messico a presentare l’edizione messicana di Ritratti di guerra ho indossato una maglietta di Ayotzinapa, perché ci sono 40 ragazzi scomparsi che non stanno ritornando e nessuno risponde per loro. La gente si gira dall’altra parte e non succede niente. In cose come questa non puoi restare neutrale. La storia è il presente non il passato, non è passata, è qui. È come pensare che il franchismo sia finito: non è passato, è qui, siamo noi. Trenta milioni di spagnoli sono andati a dormire franchisti e si sono alzati democratici. Questa storia è un po’ la stessa cosa ma in un altro luogo e in un altro tempo. Racconti di guerra è un romanzo politico che parla degli aspetti sporchi della società, ma anche di ciò che, io credo, la salva sempre: l’arte e la bellezza, per le quali vale la pena di protestare.”

Ángel de la Calle – Ritratti di guerra, 001 Edizioni 2017Ritratti-di-guerra_Debord