L’autrice di questo libro, la ventisettenne californiana Emma Cline, si deve essere chiesta come mai le ragazze delle comuni del libero amore degli anni sessanta fossero sempre loro a lavare i piatti. Non doveva essere il tempo della rottura degli schemi, dell’uguaglianza tra maschi e femmine? E perché i guru di queste comuni erano sempre maschi? Tutti carismatici, affascinanti, ipnotici. Perché le ragazze li seguivano e lavavano i panni e cucinavano per loro?

Poi nelle sue ricerche su quel periodo storico e sulle comuni hippy la Cline incappa, inevitabilmente, nella famosa Family, la comune che gravitava intorno a Charles Manson, quello dell’omicidio di Sharon Tate nonché di altre otto persone. La Tate era un’attrice, era sposata con il regista Roman Polanski e quando venne uccisa, nella sua casa insieme ad altre tre persone la notte del 9 agosto 1969, aveva ventisei anni ed era incinta di otto mesi. Il fatto è che Manson non commise personalmente gli omicidi in casa Polanski. Anzi, Manson non era nemmeno presente: inviò le sue ragazze, accompagnate dal suo braccio destro. Furono loro ad eseguire i delitti, senza tentennamenti e senza mostrare nessuna pietà.

Perché succubi del maschile fino a questo punto? Se lo chiede Emma Cline e per rispondere a questa difficile domanda non si accontenta di attingere all’educazione ricevuta in famiglia da queste ex brave ragazze, al contesto sociale, all’onda lunga degli anni cinquanta, ai tempi storici del cambiamento. Guarda più in profondità, ritrovandosi in bilico sull’abisso del mondo femminile.

Il libro è narrato in prima persona, la protagonista è la quattordicenne Evie, che entrerà in una comune – che rispecchia in tutto e per tutto la Family di Manson realmente esistita – seguendo il bisogno di essere vista, di non essere più un fantasma invisibile, di vincere una buona volta quella condizione esistenziale che la inseguiva da sempre: l’assenza. Evie incarna il periodo dell’adolescenza con una precisione che solo gli scrittori di talento sanno avere:

«Il mondo nascosto che abitano gli adolescenti, riaffiorandone di tanto in tanto se costretti, addestrando i genitori ad abituarsi alla loro assenza. Io ero già scomparsa.»
«[Mio padre] aprì le mani rimaste a penzoloni lungo i fianchi, e quando ricambiò il sorriso lo fece con l’aria impotente e colpevole di uno straniero che chiede di ripetere le indicazioni stradali. Il mio cervello, per lui, era un trucco misterioso da prestigiatore verso il quale poteva solo provare meraviglia. Mai prendersi la briga di capire come funzionava lo scomparto nascosto.»

Ma Evie è soprattutto il simbolo dei motivi delle donne, delle aspettative, delle rabbie, di tutti quei sentimenti di delusione e umiliazione che, in un mondo dominato dal maschile, può diventare persino odio:

«L’odio che doveva aver provato Suzanne per fare quello che aveva fatto, per affondare il coltello a ripetizione come se stesse cercando di liberarsi da una frenesia malata: un odio del genere non mi era sconosciuto. L’odio era facile da provare. Le sue varie forme costanti negli anni: uno sconosciuto a una fiera che mi ficcava una mano in mezzo alle gambe sopra i pantaloncini. Un tipo sul marciapiede che faceva finta di saltarmi addosso e scoppiava a ridere quando sobbalzavo impaurita. La sera che un uomo più grande di me mi portò in un ristorante elegante quando ero ancora troppo piccola per farmi piacere le ostriche. Non avevo nemmeno vent’anni. Al nostro tavolo venne a sedersi il proprietario, e anche un famoso regista. Gli uomini si lanciarono in una discussione accalorata in cui non potevo in nessun modo inserirmi: giocherellai con il mio tovagliolo di stoffa pesante, bevvi un po’ d’acqua. Guardai la parete. Mi raccomando, mangia tanta verdura, mi disse tutt’a un tratto il regista. Devi crescere. Voleva farmi capire quello che già sapevo: non avevo nessun potere. Vide la mia inferiorità e la usò contro di me. Il mio odio per lui fu immediato. Come il primo sorso di un latte andato a male: il puzzo di marcio che ti ferisce le narici, che ti invade tutto il cranio. Il regista rise di me, così come gli altri, compreso l’uomo più grande che nel riaccompagnarmi a casa in macchina mi prese una mano e se la posò sul cazzo. Non erano rare eccezioni. Cose del genere mi sono successe centinaia di volte. Forse anche di più. L’odio che vibrava sotto la superficie della mia faccia da bambina, penso che Suzanne l’avesse riconosciuto.»

Lo sguardo degli uomini sulle donne influenza il modo in cui le donne poi vedranno se stesse:

«Fu lui a presentarmi a Mitch, dicendo ‘La nostra piccola attrice’ tenendomi una mano sulla schiena. Agli uomini veniva così facile quell’assegnazione immediata di valore. E sembrava sempre che ti volessero complice del loro giudizio su di te.»
«Sapevo che il semplice fatto di essere una ragazza a questo mondo ti riduceva la capacità di credere in te stessa.»
«Anche se avrei dovuto sapere che quando gli uomini ti raccomandano di stare attenta, spesso ti stanno mettendo in guardia dal film a tinte fosche che gli sta scorrendo nel cervello. Un violento sogno ad occhi aperti che li spinge ad augurarti colpevolmente di ‘arrivare a casa sana e salva’.»
«Eravamo state con gli uomini, gli avevamo lasciato fare quello che volevano. Ma non avrebbero mai conosciuto le parti di noi che gli tenevamo nascoste: non ne avrebbero mai sentito la mancanza e non avrebbero neppure capito che c’era qualcos’altro da cercare.»

Le ragazze è uscito lo scorso 2016 – in Italia a settembre per Einaudi – ed è già stato tradotto in molte lingue, ha anche già venduto i diritti cinematografici. È scritto molto bene, la Cline ha la rara capacità di saper raccontare certe sensazioni che tutti proviamo ma alle quali non sappiamo dare un nome. Di trovare parole nuove per immagini consuete:

«I nostri visi chiusi e attenti come tulipani.»
«Il bianco da pesce delle sue cosce che sbucavano dal costume.»
«Era un bambino, le narici brinate di moccio […]»
«Poteva succederti qualcosa di brutto, disse, come un attore che tirava a indovinare le battute.»

Il libro racconta le utopie di quegli anni, attraverso gli occhi delle ragazze ma anche con la prospettiva di ciò che quelle utopie sono diventate oggi:

«Il freddo eccesso delle parole di Russell: basta con l’ego, spegnare la mente. Lasciarsi invece trasportare dal vento cosmico. Un credo dolce e digeribile come le paste e le torte che sgraffignavamo in una panetteria di Sausalito, riempiendoci la bocca di quell’amido facile.»
«Suzanne e le altre ragazze non erano più in grado di elaborare certi giudizi, il muscolo inutilizzato del loro ego era diventato flaccido e inutile.»
«Nessuno ancora pensava che gli sconosciuti potessero essere altro che amici. Il nostro amore reciproco era sconfinato, l’universo intero un enorme squat di hippy.»
«Rimasi ad ascoltare mentre lui e Julian parlavano di droghe con la concentrazione dei professionisti scambiandosi statistiche come trader di borsa. Raccolto in serra rispetto a quello all’aria aperta. Paragoni tra i valori di Thc nelle diverse varietà. Era tutto un altro mondo rispetto alle droghe coltivate per hobby di quando ero ragazza […] Pagare con un sacchetto di erba la benzina che serviva per arrivare a San Francisco. Era strano sentire che le droghe venivano appiattite a una questione di numeri, merce quantificabile invece che portale mistico. Forse l’approccio di Zav e Julian però era migliore, tagliava via tutto quell’idealismo da rintronati.»
«Abitatori del sogno inebetito.»

Per concludere vi lascio con l’intervista che Emma Cline ha rilasciato a Giulia Santerini di Repubblica:
Domanda: Perché raccontare proprio le ragazze della comune satanica di Charles Manson e la California degli anni sessanta?
Risposta: Questa non è la storia di Charles Manson, nel senso che io la vicenda l’ho completamente romanzata, la mia è un’opera di fantasia e di immaginazione. Però in quei fatti c’è stato qualcosa che mi parlava. È stato un crimine tremendo che ha fatto sentire le persone di colpo meno sicure nelle poprie case. È stato un momento di svolta, di perdita dell’innocenza. I miei personaggi perdono l’innocenza.
D.: Lei è nata in California. Come si rapporta a quella California? C’è qualcosa che è rimasto, qualcosa che è perduto?
R.: Gli anni sessanta sono stati il momento in cui in California si è toccata la vetta di una certa ondata di idealismo. Molti californiani hanno veramente creduto che le cose potessero cambiare. Quando poi si è visto che le cose non sarebbero cambiate al livello in cui tanti speravano questo ha suscitato una terribile ondata di delusione. Io sono cresciuta nella coda, forse nelle macerie degli anni sessanta. La Silicon Valley e l’evoluzione tecnologica della California sono nate da questo èthos molto anni sessanta, prima di essere stravolte dalle finalità commerciali.
D.: Forse lei non voleva parlare solo di quelle ragazze ma anche delle ragazze. Del loro modo diverso di vedere il mondo, l’amicizia.
R.: Sì, proprio così. Ed è per questo che ho scelto una protagonista contemporanea che nel 1969 aveva quattordici anni. C’è qualcosa di universale in questo periodo dell’adolescenza: il desiderio di essere vista, conosciuta, di far parte di qualcosa di più grande. Per me questo libro parla di come si sentono le ragazze sotto lo sguardo costante dei maschi. Giungono, dalla prima adolescenza fino all’età adulta, a interiorizzare questo sguardo. Così che vedono sia se stesse sia il mondo non attraverso il proprio sguardo ma attraverso lo sguardo maschile. L’adolescenza è il primo momento della nostra vita in cui facciamo esperienze di tante cose del mondo adulto, amore, sesso… Poi è il momento soprattutto in cui le ragazze incominciano a capire in che modo il mondo le vede. E le vede come oggetti. È anche il momento in cui ci rapportiamo con la violenza. Non ci rendiamo conto delle conseguenze possibili, ma giochiamo con la possibilità della violenza.
D.: Alessandro Baricco, uno scrittore italiano che ha una scuola di scrittura, dice che questo libro è troppo perfetto. Sembra il prodotto di una ventina di editing. Prendi tutte le scuole di scrittura americane e le metti insieme, lui dice, distilla il meglio lo metti in un software ed esce questo libro, che è senz’anima. Lei come risponde?
R.: Mi sembra un po’ fuorviante concentrarsi sul fatto che io ho frequentato una scuola di scrittura. È durata due anni e non mi sembra che abbia avuto grandi effetti sul mio stile. Quello che si insegna alla mia università, la Columbia, non è concentrarsi su uno stile, ma costruire una storia, mettere insieme una trama. In questo senso direi che lo stile de Le ragazze è tutto mio, tutta farina del mio sacco. Per quanto riguarda il “senz’anima” mi sembra che Baricco non abbia fatto attenzione al fatto che io scrivo di cose che contano e pesano per me. E alla fine dei conti non sono proprio certa di aver bisogno che un uomo più anziano di me mi dica se in quello che scrivo ci sia anima o no.
D.: Ha scritto Le ragazze a ventiquattro anni, venduto in trentacinque paesi, successo planetario. Sta già scrivendo il prossimo romanzo o ha l’ansia da successo da opera prima?
R.: Sì, ho cominciato un nuovo romanzo e sto lavorando a una raccolta di racconti. Non ho ansia. Ho sempre molto presente che questo libro l’avrei scritto anche se non ci fosse stato nemmeno un lettore. Tutto il chiasso che è sorto attorno a questo libro non ha a che vedere con me. Io voglio continuare a scrivere di cose che interessano specificamente me. Quindi non investo molto su quella che potrà essere la reazione positiva o negativa del mercato.
D.: Qual è il libro che avrebbe voluto scrivere? E quello che ha sul comodino?
R.: Vorrei aver scritto I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante. Il libro sul mio comodino in questo momento è La casa della gioia di Edith Wharton.
D.: Ma a che età a cominciato a scrivere?
R.: Ho iniziato a scrivere molto presto nella mia grande famiglia, avrò avuto sei, otto anni. E leggevo moltissimo, per trovare un po’ di privacy dai miei sei fratelli.
D.: E leggeva quello che scriveva ai suoi sei fratelli?
R.: No, solo alla mia sorella più grande, ma ora mi leggono tutti.

Emma ClineLe ragazze, Einaudi 2016.