Entrò nella stanza di quella sedicenne. Lui quarant’anni, era consapevole dell’enormità di quel passo. Adescato con l’autostop da una minorenne, attirato nella casa di mamma e papà che tanto sono al lavoro, abbeverato col Cointreau della vetrinetta e, ora, invitato ad accedere nel regno privato dell’adolescenza. Il primo colpo d’occhio già cominciò a stanargli i pregiudizi, era tutto blu e non c’era un accenno di rosa neanche a essere daltonici. La guardò un po’ stupito in cerca di punti di riferimento, ma nel viso serio di lei non trovò infiocchettature smanciose. Che cosa si era messo in testa? Era chiaro che la cosa poteva finire molto male. Ma la conversazione stentata di quella ragazzina durante il viaggio in auto lo aveva colpito. Perché? Non aveva detto niente di particolare, però ogni sua parola era originale e suonava come una lingua preistorica. Su una parete della stanza un poster, il film “Alice nelle città” di Wim Wenders. Si soffermò su quell’immagine e le chiese cosa mai ci vedesse in quella brutta foto in bianco e nero. Lei seguì lo sguardo di lui fino al manifesto e spiegò.

Perché camminava, quella bambina di nome Alice ritratta nel poster, sulle strade sterrate delle periferie. Quegli spazi ritagliati fuori dal desiderio degli altri, dove la libertà restava libera. Perché era la libertà che ora le serviva, più di ogni altro tipo di nutrimento, per continuare a vivere, per crescere. Mangiare un panino. Guardare. Sentire dentro di sé finalmente lo spazio per metterci quello che trovava, quello che le interessava, scelte sue. Perché anche lei voleva liberarsi, andarsene, camminare fino a lontano. Anche lei voleva lasciare vagare la mente e pensare e intristirsi e fantasticare. Ed essere felice di non aver nulla ma così pienamente dentro il proprio corpo. E nella semplicità delle superfici e dei silenzi sentire la solitudine accomunarla agli altri esseri liberi come lei. E come faceva quel regista a sapere così bene cosa guardare e farle vedere? A mostrarle la libertà con tanta precisione? A trovare la bellezza dove nessuno la vedeva? Ora parlava sottovoce la ragazzina: non l’ho mai visto questo film, ma so già tutto anche solo guardando la foto del poster.

Aveva pronunciato questa spiegazione come un impeto di necessità e lui era rimasto sopraffatto. Era come se lei avesse parlato un’altra lingua. Non aveva capito niente, ma non perché non sapesse, non sentisse. Era stata la grandezza della visione, l’ampiezza delle immagini a paralizzarlo, era troppo per lui. Senti piccola, io qui non ci dovrei essere e tu non avresti dovuto portarmici. Io non sono il fotografo che sta sul poster e tu non sei Alice. Noi due non partiremo insieme per un viaggio e il passaggio che ti ho dato è durato solo un attimo. Senti, ora me ne vado, perché tu hai fame di mondo e io sono un piccolo morso che non ti sfamerà.

Questo lei lo capì. Gli si avvicinò. Lo abbracciò. Lui sentì contro il suo il corpo nervoso e intuì che doveva scappare subito, subito. Il bacio che seguì fu come cadere dall’alto, si sentì in pericolo e si staccò, allungando le braccia per allontanarla. Respirò profondamente tenendola a distanza. Si diresse verso la porta e se ne andò senza una parola.

Non sapeva cosa dire, perché improvvisamente si accorse di non capire il territorio dell’adolescenza, abitato da corpi pronti all’esplosione e anime traboccanti di bisogni. Si rese conto di non aver mai immaginato la sua libertà, lui si sentiva già libero, poteva fare e avere quello che facevano e avevano anche gli altri.

E quel poster, che mostrava ciò che lui non aveva mai pensato si potesse desiderare: abiti sgualciti, capelli trasandati, cibo scadente, scomodità, solitudine, periferie. Wim Wenders doveva essere un uomo parecchio complicato e indubbiamente non troppo furbo, come succedeva spesso a quei tronfi intellettuali boriosi pieni di sé che usavano parole complicate solo per farti sentire a disagio e credersi superiori. Chissà che gusto c’era, se avevi tanti soldi da poter fare addirittura un film, farlo proprio sulle cose brutte, andare a cercare proprio gli angoli di vita meno… quelli più… Ingranò la marcia e accelerò, l’autoradio si accese e la musica si diffuse nell’abitacolo. Con sollievo si accorse di potersi lasciare tutto alle spalle, certe cose non erano per lui. Cominciò a canticchiare.

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Illustrazione di Davide Lorenzon
Gli infaticabili Cartaresistenti, Fernando Ambrosi e Davide Lorenzon, hanno lanciato nel luglio del 2016 un nuovo bellissimo progetto sul loro blog (chiuso poi il 3 settembre 2017) intitolato “In busta chiusa”. Ventisei autori sono stati invitati a partecipare e ciascuno di loro ha scelto una lettera dell’alfabeto, sulla quale scrivere un pensiero, tra i titoli che CRT ha associato alle lettere, dalla “A – Architettura”, alla “Z – Zappare!”. Dicono i Cartaresistenti: “Questo progetto non è un concorso ma un’azione di gruppo e ogni autore o lettore di Cartaresistente si impegna a sostenere l’idea in una rete ideale e riconosciuta”. Inoltre: “Per seguire dinamiche grafiche introvabili è stata usata la vecchia scuola della “mail art” realizzata su buste riciclate di carta, poi rifotografate e impaginate in digitale.” L’attenzione e la competenza con la quale questo progetto è stato realizzato sono davvero uniche. Anche io ho avuto il privilegio di essere invitata a partecipare, la mia lettera è la W e se siete arrivati fino qui l’avete già letta.