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Era finita, solo questo aveva nella mente mentre si sdraiava sulla poca erba del ciglio della strada. Intanto il cuore sembrava esploderle nel petto e il respiro le mancava. Finita, finita, ora poteva andare via, voleva andarsene, via lontano. Le sembrava che non ci fosse mai stato niente a trattenerla in quel paese dove viveva da quando era nata, quasi ventisette anni. Chi l’aveva aiutata? Le amiche sembravano non capire quando provava faticosamente a parlarne, rispondevano con cortesi commenti educati, lasciandola ai suoi dilemmi, ai dubbi, alla sua guerra interiore combattuta tra l’amore profondo per suo marito e l’anima sofferente che lanciava grida di aiuto. Sua madre la spingeva a mantenere la situazione inalterata, le consigliava di sopportare e le suggeriva di non irritare suo marito. Sua madre in fondo pensava che fosse sua la colpa se lui la picchiava, la considerava antipatica e irritante già da quando era solo una bambina. Aveva provato a chiedere un parere maschile, all’amico intellettuale, e lui le aveva consigliato l’ovvio: lascialo. L’aveva detto con quella sua aria annoiata, con l’impronta di chi non si stupisce di nulla perché tanto ha già capito tutto. Nelle parole dell’amico non aveva trovato empatia, nessuna offerta di aiuto, nessuno stupore. Lei invece era stupita, molto stupita.

Era rimasta sorpresa la prima volta che suo marito le aveva afferrato il collo con le mani e aveva stretto forte. Stavano discutendo e lei si ostinava a voler avere ragione, delle sue ragioni, delle sue convinzioni. La meraviglia per quel gesto estremo l’aveva resa muta. Non aveva trovato le parole per dire niente, a nessuno, neanche a se stessa. Come spiegarlo? Non era mai capitato prima, forse adesso lui era stressato, in fondo erano sposati da poco tempo e magari il cambiamento di vita lo aveva affaticato. Sì, forse aveva bisogno di tempo per assestarsi nella nuova dimensione, abituarsi alla vita coniugale, alle inevitabili liti. Inevitabili. Oppure no? Sua madre sosteneva che una buona moglie può ottenere tutto da suo marito senza bisogno quasi di chiederlo. Lasciava immaginare, sua madre, quali armi una donna può utilizzare per ammaliare e stordire il marito, per lasciargli credere di comandare inducendolo invece nella direzione desiderata. Certo la considerava una figlia poco intelligente, visto che si ostinava a non approfittare dei vantaggi di cui la natura l’aveva dotata. Una figlia testarda e litigiosa, prepotente e presuntuosa, ecco come la vedeva sua madre. E se avesse avuto ragione? I segni sul collo li aveva coperti con un foulard, però la volta successiva a suo marito partì un pugno. Le venne un occhio nero che non riusciva a nascondere in nessun modo, certo non poteva tenere gli occhiali scuri al lavoro. Per spiegarlo inventò le solite scuse. Lui la prima volta, dopo i segni sul collo, si era chiuso in un silenzio impietrito, ma la seconda, per il pugno, sembrava affranto e si scusava, diceva che nemmeno lui riusciva a spiegarsi cosa gli fosse successo, quasi fosse stato qualcun altro ad azionare il suo braccio. Lei lo capì. Era un debole e non riusciva a trattenersi, vederla così sicura delle sue convinzioni e trovarla così testarda nel sostenerle lo inondava di una furia cieca alla quale non sapeva resistere. La violenza gli saliva alla testa e la sua carnagione si colorava di un rosso cianotico, una smorfia brutale gli storpiava il viso, gli occhi diventavano cattivi e il sarcasmo non era sufficiente a sedare il suo senso di inferiorità, la colpiva per farla smettere, per sentirsi più forte di lei, per farle male, ridurla al silenzio. Come mai non le riusciva di mettere in pratica i consigli di sua madre? Sarebbe bastato non irritarlo, non provocarlo, oppure almeno fermarsi in tempo quando per sbaglio succedeva. Invece lei era posseduta, entrambi lo erano. Lui dalla paura, lei dalla rabbia. No, non voleva fermarsi e tacere, non voleva moderarsi per evitare le botte e quando l’alterco cominciava, invece di governare il suo comportamento, lei alzava i toni, aumentava la quantità, la qualità delle sue parole. Poteva picchiarla, poteva ammazzarla ma non l’avrebbe mai mai mai trasformata in quell’essere meschino e opportunista che sua madre le suggeriva di diventare, che suo marito avrebbe preferito sposare.


Come aveva fatto a non accorgersene prima? Cercava nella sua memoria le tracce di segnali premonitori, sassolini che avrebbero potuto metterla in guardia. Erano stati fidanzati per due anni ma in quel periodo tutto era stato solo molto divertente. Andavano a ballare con gli amici e lui era fiero di lei così bella, le portava fiori e cioccolatini, andavano al cinema, a cena fuori per romantici têtê-à- têtê. Parlavano delle solite cose, lavoro, vacanze, poi i preparativi per il matrimonio avevano monopolizzato le loro conversazioni. Allora un po’ di insofferenza aveva cominciato a vederla ma l’aveva attribuita al fatto che forse agli uomini certe cose interessano meno che alle donne. Lui si annoiava ma lei era viva come non mai. Si erano sposati e finalmente avevano avuto la loro casa, la loro vita e senza l’opprimente presenza quotidiana della madre lei si era sentita improvvisamente libera. Non aveva mai amato tanto suo marito, gli era intimamente grata per averle regalato l’autonomia di pensiero che non si era mai permessa. Ma allora perché? Quando era successo che tutto era cambiato? Dopo il matrimonio le cose sembravano come prima anche se lui era sempre stanco, le preoccupazioni al lavoro, diceva, la crisi economica italiana che come una marea inarrestabile saliva maligna ad accarezzare le caviglie anche alla sua piccola ditta di trasporti. A
 poco a poco aveva accettato di vederlo sempre più immusonito, più dedito alla televisione che alla conversazione, ai modi bruschi che a quelli galanti. In discoteca non le metteva più le mani sui fianchi e passava il tempo con gli amici. A lei era venuta una specie di tristezza, le sembrava uno spreco non essere meglio di così, un’occasione perduta non essere totalmente felici. Si sentiva offesa in un modo che non riusciva a spiegare. I battibecchi si erano trasformati in liti e le discussioni in urla, le urla in botte. 

Le percosse diventavano sempre più frequenti e lei non riusciva a capacitarsi, loro si amavano! Lo aveva ricordato a suo marito ma lui le disse che, sebbene sempre innamorato, era deluso, non si aspettava che lei avesse quel caratteraccio. Certo la suocera lo aveva avvisato ma lui non le aveva badato. Era stato un errore, ora si doveva ritrovare un equilibrio, lei si doveva calmare, poi tutto sarebbe tornato come prima e l’amore grande che li aveva uniti avrebbe vinto sulle cattive abitudini e sui capricci. Ma intanto si dedicava all’attività di domarla. La afferrava per i lunghi capelli e la tirava giù per darle calci nella pancia e sulla schiena. Aveva imparato la lezione, colpire là dove poi non si potrà vedere. Ci aveva preso sempre più gusto e a un certo punto non aveva neanche bisogno di forti motivazioni per picchiarla, gli bastava che con lo sguardo lei lo disapprovasse, le dava con freddezza calci sulle gambe, ginocchiate all’inguine. Era sempre più potente e cominciava a divertirsi. Aveva scoperto il gusto sadico di picchiarla lo stesso giorno di un’uscita con gli amici e davanti agli altri l’abbracciava o palpeggiava con finta passione proprio dove sapeva che a lei doleva. La guardava negli occhi mentre lo faceva, per esercitare il suo potere e la sua violenza su di lei, imponendole una finzione che la costringeva sempre più al suo volere. E quando lui cominciò ad associare al piacere di picchiarla quello di stuprarla, non ci aveva messo poi tanto a compiere il passaggio, in lei qualcosa cambiò. Ora, così, in quel modo tutto era sparito, non c’era più niente di lei, della loro unione, delle promesse, dell’amore. Lei era scomparsa dalla vita di lui, lei non esisteva più. Ma questo inaspettatamente la rese lucida. Mancava poco più di un mese al Natale, il periodo in cui tutti vogliono essere più felici, e lei decise che era ora di cambiare.

Smise di provocarlo, teneva lo sguardo basso, rinunciò a tutto, difendere le sue opinioni, se stessa, la sua vita, divenne totalmente passiva. Per qualche tempo lui continuò ad aggredirla anche senza motivo, ma presto cominciò a notare il cambiamento. Si fece più sereno, diventò più attento. Arrivò persino a dirle: “Non essere così triste”. Cominciò nuovamente a cercare di divertirla, in discoteca le stava vicino, i contatti fisici erano più affettuosi. Lei qualche volta sorrideva e osservò come per lui quei momenti fossero importanti. Piano piano si stavano riavvicinando. Lei si controllava sempre, non diceva mai più del dovuto, niente che lo irritasse perché sapeva che sarebbe bastato un attimo, una sola frase sbagliata a risvegliare la violenza di lui. Ma prima che lui cominciasse di nuovo a dirle che l’amava ebbero quel brutto incidente.


Finirono fuori strada, il viale alberato di campagna fu implacabile: l’automobile si schiantò contro un tronco e poco dopo prese fuoco. Lei riuscì a trascinarsi fuori dall’auto e si accasciò sull’erba del ciglio stradale. Lui, privo di sensi, rimase nell’abitacolo. Furono sfortunati, era notte fonda, tornavano dalla discoteca, nessuno passò per oltre un’ora. Lui aveva bevuto troppo quella sera perciò si era messa lei alla guida, ma era troppo stanca e aveva avuto un colpo di sonno, i giornali avrebbero parlato dell’ennesimo tragico incidente del sabato sera. La polizia stradale non rilevò nessuna anomalia nella dinamica dell’incidente, non c’erano state frenate prima dell’impatto e lo scontro era stato frontale. Nessuno pensò in quel momento di controllare se sulle mani della ragazza ci fossero tracce di benzina, perché avrebbero dovuto. Una eventuale autopsia sul cadavere di lui avrebbe rivelato che la morte era stata causata da un forte colpo alla testa seguito dal carbonizzarsi del cadavere per l’incendio dell’automobile. La caricarono sull’ambulanza per portarla all’ospedale dove le cucirono un piccolo taglio sulla fronte e diagnosticarono contusioni sull’addome, sicuramente dovute all’apertura dell’airbag, guaribili in dieci giorni. Giusto in tempo per festeggiare il Natale.


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Questo racconto partecipa agli EDS
(Esercizi Di Scrittura) proposti da La donna Camèl

EDS – Natale in nero
Queste le regole:
– Scrivi un racconto nero
– Mettici un po’ di cioccolato e una sorpresa
– Metti un particolare davvero originale
– Vietato usare improbabile e intrigante, “recarsi” è permesso con riserva

Ecco gli altri blogger che hanno scritto racconti con queste stesse regole:
Pendolante: Natale con soffritto e Notturno per Torino

La donna Camèl: Se tu mi amassi
Melusina: Madeleine e Laggiù nel Bronx
Dario: Zebre e savane
Hombre: Ti prego, non chiamarmi Barbie
Leuconoe: Placida come il fiume
Lillina: Una vita segnata
Kermit il rospo: Pedalata nera
Milano con gli occhiali: Il quadro capovolto (seconda parte)
Angela: Chi è di scena? e Taccido
Singlemama: Dissolvenza in nero